
Il passo falso della grande manovra al centro

A Romano Prodi è scappata la frizione, l’elemento irrazionale nella sua storia non è una novità (nella biografia del Professore spicca la seduta spiritica sul rapimento di Aldo Moro), ma la sua reazione scomposta a una domanda su Ventotene da parte della giornalista Lavinia Orefici rivela qualcosa di nuovo e di antico.
Il fatto nuovo si chiama Giorgia Meloni, l’imprevisto della storia che ha scombinato i piani della sinistra per una rapida «remuntada» che oggi appare lontanissima; il déjà-vu è la manovra dei cattolici democratici per riprendersi la guida della sinistra, l’accerchiamento di Elly Schlein.
Prodi è tornato leader, punto di riferimento di un movimento catto-dem per ora magmatico, ma in via di rapida riorganizzazione, le cui mosse sono visibili negli articoli di Avvenire, il quotidiano dei vescovi. Di fronte a un ciclo storico conservatore, i progressisti messi all’angolo nel Pd a trazione sinistra di Schlein, stanno dispiegando forze “governiste” che hanno già guidato l’Italia negli anni Novanta, in piena epoca berlusconiana, fino alla rottura del partito provocata dall’arrivo di Matteo Renzi che ha tentato una svolta blairiana, incontrando la resistenza del caminetto romano.
Bruciato il ciocco renziano, il Pd nella visione degli ex ulivisti ha occupato uno spazio di non-alternativa, è buono per fare movimento, ma non coalizza gli altri partiti (basta guardare la rotta del Movimento Cinque Stelle di Giuseppe Conte) e dunque non ha la forza per tornare a Palazzo Chigi. Manca il federatore, la cultura di governo, il realismo che serve per governare.
Faccio notare che Prodi, a differenza dei descamisados che oggi guidano il partito, ha detto di essere a favore del piano di riarmo di Von der Leyen, posizione più vicina a Meloni che a Schlein. È l’ambiguità che fu del prodismo, l’enigma della doppiezza che serve a costruire il cartello elettorale necessario per tentare l’assalto alla fortezza meloniana.
Il conservatorismo di Giorgia Meloni ha innescato un cortocircuito culturale (e dunque profondamente politico) di fronte al quale i progressisti si trovano impreparati. La premier sa usare la cassetta degli attrezzi del partito e del governo, si muove con abilità nel terreno che conta, quello degli affari esteri, dove si decidono i destini del mondo, svolge un ruolo chiave in Europa, ha un dialogo aperto con gli Stati Uniti dell’era trumpiana. Sul piano interno, la sua presenza - che è leadership di movimento con Fratelli d’Italia - mette la sinistra di fronte a un discorso pubblico che è un colpo d’ariete ai totem e tabù della sinistra. La sua aperta critica al Manifesto di Ventotene rappresenta un caso esemplare di denuncia dell’uso politico della storia.
Lo shock è visibile nella reazione dell’opposizione, non coordinata, estemporanea, urlata fino alla crisi di pianto in Parlamento. Il Manifesto di Ventotene in questa chiave non è un documento storico oggetto di riflessione, ma un libretto rosso che viene agitato in piazza del Popolo, stampato da Repubblica (tornata alla sua funzione di giornale-partito), attualizzato per essere usato come una clava contro la maggioranza. Quando Prodi perde la testa di fronte alla richiesta di un commento su un passaggio che riguarda l’abolizione della proprietà privata (citato dalla premier in Parlamento), ricorda con un tono incontrollato che si tratta di «storia», ma nel farlo, paradossalmente, dà ancora più forza alla destra che accusa la sinistra di manipolare il passato, gettando sullo scenario politico del presente l’ombra del ritorno del fascismo e dunque l’urgenza della lotta antifascista contro la minaccia della dittatura.
Gli echi di questa retorica sono disseminati sui media, è un’operazione di “disinformatia” capillare e insidiosa. La legislatura è partita con il fantasma della “dama nera” e così proseguirà senza sosta, ma proprio nel momento in cui si celebrano gli 80 anni della Liberazione, Meloni sta dimostrando di esercitare una leadership che non è prigioniera del passato.
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