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Quando la Dc tutelava la proprietà privata

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Corrado Ocone
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Carmine Caputo, già segretario del Comune di Ventotene, ne è sindaco da tre anni, eletto con 274 voti contro i 223 del notaio Gennaro Santomauro, il suo principale concorrente distanziato di “soli” 51 voti, dirà qualcuno leggendomi. Ma 51 voti sono tanti in un’isola di meno di 700 abitanti, non tutti elettori naturalmente perché al di sotto dei 18 anni non si vota. O non si vota ancora, per quanto a suo tempo Enrico Letta avesse proposto di far votare anche i sedicenni. Civico di elezione, nel senso della lista nella quale si è proposto e ha vinto, il sindaco di Ventotene si è orgogliosamente confessato “democristiano” a Ginevra Leganza, del Foglio, che l’ha chiamato per saggiarne gli umori in vista dello sbarco, oggi nell’isola, della segretaria del Pd Elly Schlein e amici e compagni in trasferta politica. Per omaggiare la tomba di Altiero Spinelli oltraggiata, secondo loro, sia pure a distanza, dalla premier Giorgia Meloni citando un passaggio del manifesto suo e di Ernesto Rossi, scritto da antifascisti confinati nell’isola nel 1941, per un’Europa libera e unita sì, ma a democrazia sospesa e a regime sostanzialmente collettivistico. Dove la proprietà privata sarebbe stata o vietata o consentita solo entro limiti angusti.

D’altronde, ancora negli anni Settanta l’allora segretario del Psi Francesco De Martino, non ancora sostituito da Bettino Craxi armato di forbici per tagliare la barba a Marx, come gli rimproverò Eugenio Scalfari sulla Repubblica, immaginava di privata per l’Italia solo la bottega del barbiere. Democristiano dichiarato, dicevo del sindaco di Ventotene. «Io», ha detto, in particolare «sono nato democristiano, con Aldo Moro e Arnaldo Forlani, e morirò democristiano». Un democristiano del tipo da me immaginato scrivendo giovanissimo di un Forlani che stava «con Fanfani nel cuore e con Moro nel cervello». Forlani apprezzò avviando con me un rapporto di amicizia durato sino alla sua morte. Fanfani, allora presidente del Senato, apprezzò molto meno invitandomi ad una colazione di prima mattina per dirmi - o mandare a dire all’ancora numero due della sua corrente – che se avesse voluto accordarsi con Moro avrebbe potuto e saputo farlo direttamente. E così fece in effetti col famoso “patto di Palazzo Giustiniani” nel 1973 ponendo fine alla prima segreteria Forlani nella Dc e tornando lui al vertice del partito. Peraltro sparatissimo verso il referendum contro il divorzio che nel 1974 perse rovinosamente. Forlani invece se n’era tenuto lontano facendolo rinviare due anni prima, ricorrendo persino alle elezioni anticipate.

Abituato a suo tempo a un partito complesso come la Dc, il sindaco di Ventotene, anche a costo di deludere l’ospite più illustre di oggi nella sua isola, si è ben stretta metaforicamente la fascia di sindaco addosso per omaggiare sì la memoria di Spinelli, apprezzare anche il soffietto televisivo di Roberto Benigni ma confessare anche alla giornalista del Foglio di essersi riconosciuto nella dissociazione della premier Giorgia Meloni da un passaggio del manifesto di una Europa “libera e unita” solo a parole, dovendo convivere con la sospensione della democrazia e la proprietà confinata nelle botteghe dei barbieri, come ho divagato scrivendo del Psi di Francesco De Martino. «Io non penso», ha convenuto il sindaco di Ventotene con la Meloni pensando al raduno romano del 15 marzo «che tutti quelli che brandiscono il Manifesto in piazza l’abbiano letto». E ancora, invitato a commentare il pianto del deputato del Pd Federico Fornaro nell’aula di Montecitorio dopo avere invitato la premier a “vergognarsi” della sua parziale lettura del manifesto di Altiero Spinelli, e di Enrico Rossi, e di Eugenio Colorni, il sindaco ha detto: «Penso che il dibattito parlamentare sia ipocrita». A destra, secondo Carmine Caputo, ma anche a sinistra. Onore al sindaco di Ventotene, un po’ meno, o per niente, ai suoi ospiti di oggi.

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