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Roberto Benigni ha già scalzato Elly Schlein

Daniele Capezzone
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"Elly, scansati: facci vedere Benigni”. I compagni non lo ammetteranno mai in modo così ruvido e brutale, ma la sostanza è un po’ questa. Dove vuoi andare con la Schlein che ti ammorba con la “visione intersezionale”, la lotta alle discriminazioni “omobilesbotransfobiche”, la “giustizia sociale e climatica”? Qui su Libero vi abbiamo già svelato l’ormai mitico “algoritmo Schlein”: la metà delle cose che dice non si capisce, l’altra metà è sbagliata.

E allora ecco la necessità impellente dell’epifania di Benigni, l’attesa spasmodica della sua apparizione, l’ascolto sacrale da parte del piddino medio, e poi la celebrazione fanatica-estasiata-mistica. “Senatore a vita”, già urla il socialista Enzo Maraio; e dalle parti del Pd, tra i preparativi della gitarella di sabato a Ventotene e la scena pseudo-cristologica della Passione di Fornaro (che soffre e piange in Aula, confortato dagli apostoli rossi-rosé-arcobaleno), si cerca un profeta da ascoltare, un santo a cui votarsi, un senso a questa storia (direbbe Bersani saccheggiando Vasco). Le realtà è che siamo in presenza di due spettacolari metamorfosi. La prima riguarda lui, Benigni. Da bestemmiatore, si è fatto cardinalone furbissimo. Da rivoluzionario, è diventato democristiano (tendenza cattocomunista, ovvio).

Da iconoclasta blasfemo (“Wojtylaccio”) è divenuto cocco del Vaticano e del Quirinale. Si è sottoposto a quello che potremmo chiamare un processo di “auto-fabiofazizzazione”, nel senso che in genere Fazio pratica questo trattamento agli altri mentre il Roberto nazionale l’ha applicato a se stesso. Ogni angolo è stato smussato, tutto è stato reso conformista e conforme rispetto al pensiero “accettato” (dunque, di sinistra). Si simula la rottura degli schemi, ma in realtà si è dentro l’ortodossia più rigida. Proprio come quando Fazio finge di scandalizzarsi (gridando “Lucianina!”), mentre con quel finto rimprovero sottolinea come la Littizzetto stia pienamente dentro il copione ultrarassicurante della recita scolastica.

 

Ecco, Benigni fa tutto questo a un livello superiore. Diciamo che un redivivo Orwell sarebbe senza parole, vedendo la realizzazione (apparentemente dolce, sorridente, astutissima) di un incubo. Il “fool” shakespeariano, il gran buffone, che in realtà ragiona come un supercalcolatore sottosegretario dei governi del Pd; il grande trasgressore trasformato in vigile urbano del politicamente corretto; l’eretico che recita le giaculatorie; l’uomo della provocazione trasformatosi in una sorta di “beghina woke”. Benigni, dietro l’apparenza studiatamente scapigliata, è in realtà diventato il sommo sacerdote di riti rassicuranti per il progressista medio: a Sanremo ti apparecchia la celebrazione della Costituzione; sempre su Rai 1 (ma quale TeleMeloni...) ti recita il temino eurolirico.

Come una Serracchiani che parla toscano, una Rosy Bindi più spettinata, una Concita De Gregorio più comprensibile, la banalità piddina resa simpatica.
Ma siamo lì. E poi c’è la seconda metamorfosi, quella del Pd. Persa ogni ambizione di primato della politica, smarrita ogni autorevolezza, cronicizzato ogni possibile complesso di inferiorità, che si fa? Elementare, Watson: ci si rivolge al GG, al Gran Giullare. Con Stalin, c’era la pretesa (se ne occupava il compagno Zdanov) di dominare l’arte e la cultura, di piegare ogni espressione artistica alle esigenze del partito. Qui non c’è Stalin e non c’è nemmeno Zdanov. Tutto il potere è nelle mani del carro di Tespi di attori-comici-umoristi che ormai dettano la linea. Michele Serra l’altro sabato, Benigni l’altro ieri, domani chissà.

 

Per questa via il Pd tornerà a vincere? Certo che no. Si riconnetterà con le esigenze concrete degli italiani? Figurarsi. Ma almeno i compagni hanno trovato per questa via una specie di farmaco, uno stabilizzatore dell’umore. Si illudono di star meglio, coltivano la loro presunzione di superiorità morale e culturale, recitano le loro preghierine antifasciste. E continueranno a perdere.

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