Manifesto di Ventotene, così la sinistra vuole imporci le peggiori balle del comunismo

di Corrado Oconegiovedì 20 marzo 2025
Manifesto di Ventotene, così la sinistra vuole imporci le peggiori balle del comunismo
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Quando si parla del Manifesto di Ventotene mito e storia entrano in tensione, creando ambiguità e contraddizioni di non poco conto. Per dirla con Hegel, si tratta di un testo più noto che conosciuto. Ed è proprio su questa ignoranza di fondo che si è potuta costruire negli anni un’immagine mitologica di esso che non corrisponde né al dettato dello scritto né a quelle che erano le intenzioni degli autori al momento della stesura. In sostanza, nel caso del Manifesto ci troviamo di fronte a un vero e proprio uso politico della storia, piegata ad usi contingenti e pertanto stravolta. Ovviamente, gli studiosi queste cose le sanno da sempre, anche se pochi di loro hanno avuto il coraggio di scriverne. Merito di Giorgia Meloni è stato perciò quello di “denudare il re” davanti agli italiani, e per di più in un luogo altamente rappresentativo. Credo che sia stata un’operazione di verità che farà bene a tutti, compresi i più ferventi europeisti. È solo facendo i conti con la storia, nella maniera più “oggettiva” possibile, che si può infatti costruire un futuro libero e solido per la stessa democrazia.

Opportuno è perciò contestualizzare il Manifesto, ricostruirne la genesi e gli obiettivi. Un primo spunto di riflessione ce lo dà Norberto Bobbio, lo studioso più rappresentativo della cultura antifascista dell’Italia repubblicana. Nel suo Profilo ideologico del ’900 del Manifesto non si parla proprio. Ciò significa due cose: quel testo non era da lui giudicato una pietra miliare della nostra cultura politica; e comunque nel 1969, quando uscì, sudi esso non si era ancora creata una mitologia. Essa, infatti, data ad anni più recenti, cioè al momento in cui, intorno agli anni ’90, la sinistra orfana degli ideali comunisti trovò nell’ideologia europeista un facile sostituto e surrogato. Il Manifesto poté perciò diventare a sua volta una macchina produttrice di miti, dimostrando una straordinaria “potenza mitopoietica”, per dirla con un serio studioso del federalismo quale Tommaso Visone.

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TANTI MITI E SCIOCCHEZZE

Il primo di questi miti è costituito dall’idea che il Manifesto sia uno dei testi fondativi del processo di integrazione europea. Si tratta, per dirla con le parole di un altro storico serio e di sinistra quale Piero Graglia, di una “sesquipedale sciocchezza”. I Padri Fondatori dell’Europa non conoscevano le idee espresse nel Manifesto e, in ogni caso, si muovevano lungo tutt’altra radici filosofiche, in primo luogo il personalismo cristiano e il funzionalismo dei pragmatisti. Ugualmente frutto di immaginazione è l’idea che il Manifesto sia alla base della Costituzione repubblicana. La nostra Carta fondamentale nasce da un nobile e alto compromesso fra tre culture politiche: la popolare o cristiana; la marxista e socialista; e, in misura minore, la laica e democratica. La componente federalista, rappresentato dal Movimento federalist europeo fondato a Milano nel 1943, non giocò alcun ruolo: quel movimento, molto radicale e fortemente orientato a sinistra, era allora e rimase sempre marginale nelle vicende politiche italiane. Le istanze federaliste erano rappresentate dalla corrente sturziana (e degasperiana) della Dc.

Ma veniamo al Manifesto, il cui titolo originale evidenzia ancor più come esso volesse essere per gli autori un appello all’azione piuttosto che un un rigoroso trattato di teoria politica: Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un Manifesto. Il suo artefice principale fu, come è noto, Altiero Spinelli, che riuscì a coinvolgere nell’impresa anche Ernesto Rossi, con cui aveva fatto amicizia nel confino di Ventotene e che avrebbe scritto una buona metà del terzo e ultimo capitolo del libretto. Il fascismo aveva confinato nell’isola pontina circa 800 oppositori, per lo più intellettuali o attivisti con una certa cultura. Probabilmente, il regime non li considerava un vero pericolo, visto che li aveva raccolti tutti insieme esercitando fra l’altro un controllo a maglie larghe sudi loro.

ÉLITE E ILLUMINATI

Come Spinelli racconta nella sua autobiografia, intitolata Come sono diventato saggio, a Ventotene le giornate passavano per lo più in lunghe discussioni, di cui il Manifesto è il frutto. Fra i confinati, in larga maggioranza comunisti, c’era anche un giovane ebreo, Eugenio Colorni, promessa della filosofia italiana, apprezzato da Croce e Gentile, che sarebbe morto tragicamente a poche ore dalla liberazione di Roma per opera della “banda Koch”. La moglie di Colorni era un’agiata ebrea tedesca, Ursula Hirschmann, sorella di Albert, uno dei più noti economisti del Novecento, mentre una delle tre figlie di Colorni, Eva, avrebbe addirittura sposato il premio Nobel Amartya Sen. Fu Ursula, che faceva la spola fra Ventotene e Roma, a portare i primi manoscritti del Manifesto in Italia, mentre il marito lo stampò clandestinamente nel 1944. Esso funse da bussola per la creazione appunto del Movimento federalista europeo. Morto Colorni, la Hirschmann sposò in seconde nozze proprio Spinelli, vivendo a Roma fino alla sua morte. Storie senza dubbio affascinanti, testimonianza di un milieu culturale transnazionale e di una élite colta e cosmopolita. La quale considerava la stessa Unione europea solo una tappa, come è scritto nel Manifesto, verso la costruzione di uno “stato cosmopolitico mondiale”.

Il carattere élitario che promana da ogni pagina del Manifesto, il quale affida la “rivoluzione federalista ed europeista” ad una minoranza illuminata, nasce da qui.

Un carattere che si sposa alla perfezione con l’idea comunista di una “avanguardia rivoluzionaria” che deve agire a nome e per conto del popolo, non considerando le sue opinioni “fallaci”. Spinelli, ancora ai tempi di Ventotene, era un comunista di solida e dogmatica fede, iscritto al Partito sin dal 1924. Egli era fortemente avverso a Stalin, in quanto seguace della linea troskista. L’idea di una “rivoluzione permanente” e calata dall’alto dovette restare prbabilmente impressa nel suo dna per lungo tempo, anche in quel periodo in cui andava convertendo il suo pensiero verso una forma molto radicale di federalismo. Così come l’avversione per la proprietà privata. Mai comunista era stato invece Ernesto Rossi, rappresentante eminente di quel partito d’Azione, di cui Croce ebbe a dire che era “un intruglio di colorito liberale ma di realtà comunistica o, a ogni modo, dittatoriale” che ha scelto questo nome “non osando chiamarsi apertamente socialismo e socialismo rivoluzionario”. Nel dopoguerra troveremo Rossi collaboratore de Il Mondo di Pannunzio e poi fra i fondatori del partito radicale.

In conclusione, si può dire che il Manifesto ha un importante valore storico e documentario ma che le sue idee sostanzialmente antidemocratiche e illiberali appartengono a un mondo che non può assolutamente essere più il nostro.