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Pd e compagni hanno bisogno del nemico Trump

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Daniele Capezzone
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Domanda difficile, risposta (purtroppo) semplice e sconfortante. La domanda è la seguente: ma perché la sinistra ha disperatamente bisogno di un nemico, e stavolta si aggrappa a Donald Trump come idolo negativo, come bestia nera, anzi come Bestia Arancione da abbattere?

Ed ecco la risposta: perché è miseramente crollato tutto ciò su cui la sinistra politica e intellettuale aveva scommesso negli ultimi vent’anni, e allora- in un deserto di progettualità - l’unico modo per restare uniti e per darsi un’identità è costruire una specie di “unione sacra”, di “comitato di liberazione”, di “schieramento resistenziale” tutto concepito in funzione negativa.

E come? Scegliendo uno o più nemici da fascistizzare e mostrificare: nella contingenza attuale, un pacchetto di nemici domestici (Giorgia Meloni e Matteo Salvini, come ieri Silvio Berlusconi) e uno globale (il binomio Trump-Musk), tutti presentati non come vincitori popolari di elezioni democratiche, ma come usurpatori e nemici delle “vere” esigenze del popolo.

Peccato che il popolo (i “deplorables”, cioè i pessimi, i miserabili, i deplorevoli già offesi nel 2016 da Hillary Clinton) non la pensi così, e anzi abbia sistematicamente cacciato la sinistra da quasi tutti i paesi occidentali dove governava, scegliendo regolarmente lo schieramento avverso.

Ma è in una dimensione temporale più lunga che si consuma il dramma dei progressisti. Non hanno affatto elaborato il lutto del post 1989: non hanno realizzato di essere gli sconfitti ideologici e morali di fine Novecento. E, da quel momento, hanno cercato di scommettere su un sistema molto rigido di riferimenti e obiettivi.

Primo: l’Ue come titolare del vincolo esterno. Gli italiani (ecco il sottinteso) non possono autogovernarsi, sono difettosi e inaffidabili, e occorre un processo di rieducazione possibilmente in lingua francese o tedesca: di qui, la mistica dei “compiti a casa”, del “ce lo chiede l’Europa”, del “motore franco-tedesco”, della “locomotiva europea” rispetto alla quale Roma può solo accontentarsi di essere un vagone. A ben vedere, più o meno consapevolmente, i compagni hanno trasferito sull’Ue lo stesso approccio ideologico-miracolistico che li legava all’Urss: la direzione della storia è invariabilmente quella (ieri Mosca, oggi Bruxelles), e chi si oppone è automaticamente descritto come un retrogrado, un reazionario, un fascista, un nazionalista.

Secondo: la dottrina politicamente corretta. Un metodo nato anche con buone intenzioni iniziali (e cioè non discriminare) si è rapidamente trasformato in un inflessibile catechismo laico, in una dottrina feroce che non ammette obiezioni. Con un inquietante tocco orwelliano: proprio mentre - a parole - si esalta la “diversità”, nei fatti si impone l’uniformità, anzi un assoluto conformismo di pensiero e di espressione. Chiunque osi violare quei codici è qualificato come un soggetto pericoloso, un portatore di “discorso d’odio” o di “fake-news”.

Ecco, entrambi questi capisaldi della sinistra sono miseramente crollati: per ciò che riguarda l’Ue, la sua crisi è conclamata; mentre la stagione politicamente corretta è stata spettacolarmente spazzata via dall’esito delle elezioni americane di novembre scorso.
Così, caduto quel castello di carte, ai nostri progressisti non rimane che l’approccio negativo che abbiamo visto: individuare un nemico e illudersi di costruire la propria identità in sistematica contrapposizione con quel riferimento demonizzato.

I compagni non lo sanno, ma avrebbero bisogno di un analista. Non di Sigmund Freud, ma di uno dei suoi allievi eterodossi, Alfred Adler. Nella sua opera principale (“La psicologia individuale”: un autentico caposaldo, a mio modestissimo avviso), Adler spiega come buona parte delle nevrosi nascano da complessi di inferiorità più o meno efficacemente mascherati. In modo consapevole o no, l’individuo è indotto a cercare di “nascondere”, “mascherare”, “occultare” il proprio sentimento di inadeguatezza. In qualche caso emblematico, l’operazione riesce talmente bene da “rovesciarsi” in modo trionfale: Napoleone piccolo di statura ma grande imperatore, Demostene balbuziente eppure grande oratore, eccetera. Ma nella stragrande maggioranza dei casi, purtroppo, le cose vanno diversamente, il sentimento di inferiorità permane, e la nevrosi esplode.

Ecco, la sinistra si trova esattamente in questa spiacevolissima situazione. Nel ritagliarsi un’identità tutta in negativo (anti-Trump), certifica il suo complesso di inferiorità, e- in ultima analisi- la sua incapacità di relazionarsi con la realtà, con le sfide del presente, con le attese e le speranze degli elettori. C’è un lungo e duro lavoro da fare nel campo progressista: ma la precondizione sarebbe rendersi conto di quanto esso sia necessario.

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