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La lezione americana di Giorgia Meloni

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Fausto Carioti
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Le parole della sinistra, che la invitava a prendere esempio dal francese Jordan Bardella e non parlare alla Conferenza annuale dei conservatori, hanno avuto lo stesso effetto del braccio teso di Steve Bannon: le sono scivolate addosso. Però Giorgia Meloni una replica alle richieste dei suoi avversari l’ha data lo stesso. Le avevano chiesto di dichiarare da che parte sta, se con Donald Trump o contro di lui, e lei ha risposto nel modo più chiaro: «I nostri avversari si augurano che il presidente Trump si allontani da noi. Scommetto che il presidente Trump, che è un leader forte ed efficace, lavorerà per rafforzare la nostra alleanza, lavorando con il mio governo e con l’Europa. E coloro che sperano nelle divisioni saranno smentiti». Sono le 19.53 italiane quando Meloni, vestita di rosso (il colore del repubblicani americani, ma forse è solo un caso ), appare sul grande schermo del Cpac, presentata tra gli applausi come la leader che si sta impegnando «to pull Europe back on track», per rimettere l’Europa in carreggiata. La conoscono bene, è stata lì due volte, gioca in casa. L’ostacolo su cui la sinistra spera che inciampi è l’Ucraina. Due ore prima Elly Schlein, parlando in tv, è andata sicura: «Trovo clamoroso il silenzio di Giorgia Meloni». Nessun silenzio, invece, e nessun imbarazzo. Per spiegare alla platea quello che bisogna fare, la premier parte da Atene, dalle parole di Pericle: «La felicità dipende dalla libertà, e la libertà dipende dal coraggio».

Europei e americani lo hanno dimostrato «insieme negli ultimi tre anni in Ucraina, dove un popolo fiero combatte per la sua libertà contro una brutale aggressione». È il passaggio più delicato e importante: «Dobbiamo continuare oggi», dice, «lavorando insieme per una pace giusta e duratura. Una pace che può essere costruita solo con il contributo di tutti, ma soprattutto con una leadership forte. E so che, con Donald Trump alla guida degli Stati Uniti, non vedremo mai più il disastro che abbiamo visto in Afghanistan quattro anni fa». Non è l’attuale amministrazione americana, insomma, quella che tradisce gli ideali di democrazia e libertà. Non si tira indietro nemmeno riguardo all’altro tema spinoso, quello dei dazi che sono nel programma di Trump. Anche in questo caso rimarca il comune interesse e la necessità di essere uniti dinanzi agli stessi nemici: «Non abbiamo bisogno di sottolineare quanto siano interconnesse le nostre economie e quanto gli imprevedibili risultati di uno scontro commerciale farebbero il gioco di altre grandi potenze». Ogni riferimento alla Cina è ovviamente voluto.

Difendere il legame con Washington, per la presidente di Fdi, non è quindi una scelta di rottura, come sostengono a sinistra, ma l’esatto contrario: l’asse politico tra Europa e Stati Uniti è quello su cui reggono l’Occidente e i suoi valori. «L’Occidente non come luogo fisico, ma come civiltà», insiste. È il linguaggio giusto, quello che la conferenza dei conservatori capisce e apprezza meglio: i valori, a partire dalla libertà (dal «Leviatano», come l’argentino Javier Milei chiama lo Stato, ma anche dall’ingerenza delle istituzioni sovranazionali e dai deliri dell’ideologia woke) sono ciò che unisce gli elettori di Trump, Meloni e tutti gli altri. L’Occidente non ha solo nemici esterni. C’è «chi cerca di sabotarlo dall’interno con il virus della cancel culture e dell’ideologia woke», ricorda Meloni. È «la sinistra radicale», che «vuole cancellare la nostra storia, minare la nostra identità, dividerci per nazionalità, genere e ideologia». Sa, e lo dice, che in quella platea c’è chi ritiene l’Europa «lontana, o addirittura perduta». Riconosce che «è vero, molti errori sono stati compiuti, soprattutto a causa di una classe dirigente e di media mainstream che hanno importato e replicato nel Vecchio Continente le più folli teorie della sinistra liberal americana». Le stesse élite e gli stessi media, prosegue, «che si sono indignati per il discorso pronunciato da JD Vance a Monaco, nel quale il vicepresidente diceva, giustamente, che prima di parlare di sicurezza bisogna sapere cosa si difende».

Ci sono due buone notizie, però. La prima è la grande alleanza internazionale dei conservatori. «Quando, a metà degli anni Novanta, Bill Clinton e Tony Blair crearono una sorta di grande club della sinistra liberal mondiale», ricorda, «sono stati definiti statisti. Oggi, quando a parlarsi sono Trump, Meloni, Milei o Modi, ci definiscono una minaccia per la democrazia». Ma è «il doppio standard della sinistra, ci siamo abituati», ironizza. La seconda è che «la gente non crede più alle loro bugie», il baricentro elettorale si sta spostando ovunque verso destra.
«Votano per noi perché difendiamo la libertà, amiamo le nostre nazioni, vogliamo rendere sicuri i confini, preserviamo i lavoratori e i cittadini dall’ambientalismo folle di sinistra, difendiamo la famiglia e la vita, combattiamo contro il wokismo, proteggiamo il nostro sacro diritto alla fede e la libertà di parola. Ci battiamo per il buon senso». Scroscio di applausi per lei. Per un giorno l’America pare davvero vicina. Il lavoro da “pontiere” prosegue domani, quando la premier interverrà in videocollegamento alla riunione dei leader del G7. Non era previsto, inizialmente, perché coincideva con un appuntamento importante come il Business forum italo-emiratino a Roma, ma il programma di questo è stato rivisto proprio per permettere a Meloni di partecipare al vertice delle sette grandi democrazie industrializzate.

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