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Meloni sotto attacco, la vera opposizione sono le toghe: obiettivo, fermare la riforma della giustizia
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Due cose insegna la giornata di ieri, con l’intervento di Carlo Nordio in parlamento e lo scontro che ne è nato con sinistra e M5S. La prima è che la vera opposizione al governo non è quella che si agita scomposta sui banchi di Camera e Senato.
Non lo è perché non riesce mai a essere efficace, cioè a trovare argomenti in grado di erodere il consenso del centrodestra, perché ha leader privi di carisma e perché è incapace di fare squadra (pure ieri, Giuseppe Conte e i suoi hanno assistito freddi al discorso di Elly Schlein, confermando che è vero ciò che dice Dario Franceschini: quei partiti sono troppo diversi, un nuovo Ulivo è impossibile). Per questi motivi, nemmeno il governo ritiene che il suo vero avversario sia la minoranza parlamentare. Quel titolo, l’esecutivo lo assegna alla magistratura. O meglio, a quella «parte» del potere togato che, come dice Giorgia Meloni, è convinta di «poter fare a meno degli altri».
Da qui, la seconda lezione offerta dalla giornata di ieri: la vera partita di questa legislatura si gioca sulla ridefinizione dei rapporti tra gli eletti dal popolo (con il governo che ne è espressione) e i magistrati. Dunque sulla riforma della giustizia, che prevede la separazione delle carriere e il temuto sorteggio dei membri dei Csm, e sulle altre riforme a seguire.
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Lo hanno capito anche i parlamentari di sinistra e Cinque Stelle, insorti in aula non perché il guardasigilli li abbia attaccati («rispetto le ragioni dell’opposizione che esercita il suo compito e il suo dovere in modo anche aggressivo», ha detto anzi Nordio), ma quando egli ha assicurato che il modo «imprudente e sciatto» con cui «una certa parte della magistratura si è permessa di sindacare l’operato del ministro senza aver letto le carte» non riuscirà a fermare le riforme promesse. In mancanza di fatti nuovi e clamorosi sullo scenario internazionale, è qui che tutto si deciderà.
Nordio è stato chiarissimo nel descrivere il conflitto istituzionale. Alludendo al procuratore di Napoli, Nicola Gratteri, ha ricordato che «l’altro giorno un magistrato ha ringraziato ironicamente il ministro, perché finalmente aveva compattato la magistratura. Sono io», gli ha risposto ieri il guardasigilli concludendo il discorso in mezzo alle proteste dell’opposizione, «che ringrazio questa parte della magistratura, perché ha compattato la nostra maggioranza, come mai si era visto.
Se agli inizi vi erano delle esitazioni, oggi non vi sono più. Andremo avanti fino in fondo, fino alla riforma finale». Se qualcuno, a questo punto della legislatura, non avesse ancora capito qual è la posta in palio, Nordio gliel’ha appena mostrata.
Il ministro non ha tratto le conseguenze dell’altra questione che ha sollevato, ma è stato comunque chiaro quanto basta. Il conflitto, infatti, non è solo con quella «parte» della magistratura italiana, ma pure con certe magistrature che hanno pretese globali, come la Corte penale dell’Aja. Oltre allo scontro interno tra poteri eletti e toghe, insomma, c’è quello, più vasto, tra Stati nazionali e organismi internazionali.
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Nordio ha detto che questa corte, nel trattare la vicenda riguardante l’Italia e l’ufficiale libico Almasri, ha combinato «un immenso pasticcio», agendo «in un modo così frettoloso da sbagliare completamente un atto solenne come un mandato di cattura internazionale». Al punto che lui chiederà «giustificazione» ai magistrati dell’Aja per le tante «incongruenze» del loro operato. A questo vanno aggiunte mostruosità etiche e giuridiche come il mandato d’arresto per Benjamin Netanyahu, equiparato ai leader dell’organizzazione terroristica Hamas. Un mandato che il governo italiano ha già assicurato che ignorerà. Ma se la Corte penale internazionale è questa, ha ancora senso riconoscerne l’autorità? Signore democrazie, come gli Stati Uniti, non hanno mai ratificato il trattato di Roma, con cui fu istituito quel tribunale.
La conseguenza più ovvia del rifiuto di arrestare il premier israeliano e di ciò che Nordio ha detto ieri sarebbe il disconoscimento ufficiale della giurisdizione della Corte. A meno che l’appartenenza al gruppo di Stati che la riconoscono non sia diventata un gesto pro forma, dietro al quale l’Italia, almeno con questo governo, si ritiene libera di fare ciò che vuole. Sarebbe comunque un’ottima cosa, e anche un buon inizio sulla strada in fondo alla quale, lontana, c’è la riforma costituzionale della giustizia.
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