Cerca
Cerca
+

Giorgia Meloni, il retroscena: ecco perché sarà decisiva nel negoziato tra Usa e Bruxelles

Fausto Carioti
  • a
  • a
  • a

Che il momento sia brutto, lo si capisce già dalla lettera d’invito che il portoghese António Costa ha spedito nei giorni scorsi a Giorgia Meloni e agli altri leader dei Ventisette. Il presidente del Consiglio Ue, illustrando le ragioni del loro vertice informale di ieri a Bruxelles, ha avvertito che «occorrono ulteriori ingenti investimenti nel settore della difesa al fine di ricostituire le scorte, potenziare la nostra prontezza alla difesa di fronte a un ampio spettro di minacce e rafforzare la base industriale e tecnologica di difesa europea». Programma vasto e costoso. Per capire gli ordini di grandezza: dopo aver alzato del 30% in quattro anni la spesa militare, portandola a 326 miliardi di euro nel 2024, la Ue progetta ora di aumentarla di altri 100 miliardi l’anno entro il 2027. Dove si prendono i soldi? Si può essere accusati di avere violato il Patto di stabilità per essersi armati e difesi meglio? La tecnologia e gli armamenti acquistati devono essere solo Made in Europe, come vorrebbe Emmanuel Macron nella speranza di arricchire l’industria bellica francese, o potranno essere anche fabbricati negli Usa e negli Stati partner extraeuropei della Nato, come vorrebbero gli altri Paesi, inclusa l’Italia?

Le domande sono queste, e la gravità della questione è confermata dal fatto che quella di ieri è stata la prima riunione dei leader, nella storia della Ue, dedicata solo alla difesa, nonché la prima, dai tempi della Brexit, cui partecipa un premier britannico, Keir Starmer. Ospiti del “seminario” anche il segretario generale della Nato, Mark Rutte, e Ursula von der Leyen, sempre più bisognosa dell’aiuto di Meloni. Che ieri ha anche dato il benvenuto al nuovo premier belga, Bart De Wever: un altro della sua famiglia, quella dei Conservatori, ennesimo segnale che la destra in Europa ha il vento in poppa. «Lavoreremo insieme guidati da valori e obiettivi comuni», ha detto l’italiana.

 

 


Il vero protagonista della giornata è stato, però, Donald Trump, il leader che non era presente. Suoi i dazi che hanno mandato in subbuglio i partner commerciali degli Stati Uniti, sua la richiesta ai membri dell’Alleanza atlantica di aumentare le spese militari: «Dovrebbero essere al 5%, non al 2%», ha detto pochi giorni fa. Al 5%, oggi, non arriva nessun Paese Nato, nemmeno gli Usa. A investire di più, in percentuale, è la Polonia, che è convinta di essere il prossimo bersaglio della Russia ed è arrivata al 4,1% del Pil. E a Varsavia, come a Roma, non ne vogliono sapere dell’“autarchia bellica” di Macron, che allontanerebbe ulteriormente la Ue dagli Stati Uniti. «Siamo interessati alle migliori attrezzature che possono essere fornite il prima possibile», ha detto alla testata Politico il ministro della Difesa polacco. L’Italia sta aumentando la propria spesa, ma nel 2024 non è andata oltre l’1,5%. Molte cose dovranno cambiare, insomma, ed è chiaro a tutti i leader (tranne Macron, a quanto pare) che si dovrà cambiarle d’intesa con Trump. È qui che entra in gioco Meloni, unico leader di un Paese europeo invitato dal presidente statunitense alla cerimonia d’insediamento. Il ruolo di pontiere, che probabilmente nemmeno ha cercato, glielo ha messo la Storia sulle spalle: in questa fase, l’unico “ambasciatore” dell’Unione europea che può trattare con la Casa Bianca con qualche possibilità di trovare una buona mediazione è lei. Che durante la discussione ha insistito con i suoi omologhi europei sulla necessità di non andare al «muro contro muro» con Trump.

Passa attraverso Meloni la possibilità di organizzare un confronto tra Ue e Stati Uniti, nel quale discutere dei dazi e dell’aumento della spesa militare. Il primo passo, nelle intenzioni di von der Leyen, sarebbe un colloquio telefonico con Trump, per il quale la mediazione di Meloni sarebbe decisiva. E dopo, magari, avere un colloquio alla Casa Bianca. Trump, sinora, non ha dato segnali di disponibilità alla presidente Ue e ha accusato Bruxelles di avere un protezionismo di tipo cinese nei confronti delle merci americane, ma ha anche fatto sapere di non avere ancora deciso quando imporre i dazi all’Europa. C’è una finestra temporale in cui si può discutere, insomma. Questo, unito al rapporto di stima con Meloni, dà alla premier un certo potere di trattativa nei confronti della stessa Ue. E quello che lei pensa sulla spesa militare si sa: l’Europa deve imparare a difendersi da sola, servono obbligazioni Ue per gli investimenti sulla difesa e l’esclusione di questi investimenti dal calcolo del rapporto deficit/pil nel Patto di stabilità. Gli ingredienti per un possibile compromesso, quindi, ci sono: la Ue fa un passo verso le richieste italiane (condivise dalla Polonia e da altri) sulla spesa militare; tutti i Paesi europei investono di più in tecnologie e mezzi di difesa; Meloni contribuisce ad avviare il dialogo tra Washington e Bruxelles, che avrebbero interesse a trovare un’intesa, commerciale e militare, per difendersi dai nemici comuni, il primo dei quali è la Cina. Strada difficile, ma altre adesso non se ne vedono e senza Meloni le probabilità di percorrerla sarebbero zero.

 

 

Dai blog