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Almasri, la vera storia del generale libico: date, trasferimenti e volo. Il governo sicuro di avere agito bene

Fausto Carioti
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Cosa si pensa a palazzo Chigi della fondatezza della denuncia presentata da Luigi Li Gotti, e trasformata dalla procura di Roma in un avviso di garanzia, lo spiega bene il gesto di Alfredo Mantovano, sottosegretario con delega ai servizi segreti e indagato al pari di Giorgia Meloni e di due ministri: ha pubblicato quella denuncia nel proprio “stato” di Whatsapp, in modo che tutti i contatti della sua rubrica possano vederla. Se non è come appuntarsi una medaglia sul petto, poco ci manca. Di sicuro è la rivendicazione di aver fatto ogni cosa nel pieno rispetto della legge. Incluso l’uso di un aereo di Stato, per ragioni di sicurezza, allo scopo di rimpatriare l’ufficiale libico Osama Almasri: se il registro dei voli di Stato potesse parlare, avrebbe molte cose interessanti da raccontare e confermerebbe che quel volo appartiene a una lunghissima tradizione creata e seguita dai governi precedenti.

Al resto provvedono la normativa e la catena di eventi che ha portato alla scarcerazione di Almasri e al suo ritorno in Libia. La legge chiave è la numero 237 del 2012, che regola i rapporti di cooperazione tra il governo di Roma e la Corte penale internazionale, l’organismo che ha emesso l’ordine di cattura per l’uomo di Tripoli. Lì si stabilisce che questi rapporti «sono curati in via esclusiva dal Ministro della giustizia». Il guardasigilli, secondo la stessa legge, «dà corso alle richieste formulate dalla Corte penale internazionale, trasmettendole al procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma perché vi dia esecuzione». È a Carlo Nordio, dunque, che spetta ricevere le richieste provenienti dalla Corte e darvi seguito. Non è andata così, nel caso di Almasri. La Corte penale internazionale ha emesso il mandato di cattura il 18 gennaio, quando il libico era appena giunto a Torino (e dopo dodici giorni che viaggiava per l’Europa, prima a Londra, quindi Bruxelles, Bonn e Monaco: città di Stati che riconoscono la giurisprudenza della Corte e nelle quali i magistrati dell’Aja avrebbero potuto chiedere il suo arresto). L’ufficiale libico è stato catturato nel capoluogo piemontese domenica 19 gennaio ed è solo il 20 gennaio, ad arresto già avvenuto, che la comunicazione della questura torinese è giunta al dipartimento per gli affari di giustizia del ministero di Nordio. Senza che ci fosse stata la preventiva trasmissione degli atti al ministro, come invece è prescritto dalla legge del 2012.

 

È il motivo per cui il 21 gennaio la Corte d’appello di Roma, con un’ordinanza durissima, ha dovuto disporre la «immediata scarcerazione» del libico, in seguito all’istanza di scarcerazione presentata dal suo avvocato e preso atto della richiesta del procuratore generale, il quale ha chiesto «che codesta corte dichiari la irritualità dell’arresto in quanto non preceduto dalle interlocuzioni con il ministro della Giustizia, titolare dei rapporti con la Corte penale internazionale». Questo provvedimento viene notificato a Nordio a cose fatte, nel pomeriggio della stessa giornata; il ministro e i suoi uffici, raccontano a via Arenula, non erano a conoscenza della richiesta di scarcerazione avanzata dalla difesa né della procedura che ne era sorta, come è normale che sia, perché così impone il principio dell’indipendenza e autonomia della magistratura.

 

La cronologia dei fatti e il diritto, insomma, sono dalla parte degli esponenti del governo. Da un lato, questo infonde tranquillità per l’indagine; dall’altro, però, fa nascere una domanda: se le cose sono così evidenti a detta degli stessi magistrati che hanno disposto la scarcerazione, e se l’uso dell’aereo di Stato in simili casi vanta innumerevoli precedenti, molti dei quali mai resi pubblici, ma comunque noti agli addetti ai lavori, perché il procuratore Francesco Lo Voi ha iscritto i nomi della premier, di due ministri e di un sottosegretario alla presidenza del Consiglio nell’elenco degli indagati?

La tesi dell’«atto dovuto» in presenza di una denuncia, si ricordava ieri in ambienti di governo, non sta in piedi. Nel 2017 l’allora procuratore della repubblica di Roma, Giuseppe Pignatone, lo scrisse in una circolare che a palazzo Chigi e via Arenula non hanno dimenticato. In quelle sette pagine si ricorda ai magistrati che «è compito precipuo ed esclusivo del pubblico ministero la valutazione in ordine al contenuto degli atti che possono contenere notizie di reato, valutazione che si presenta talora anche estremamente complessa e che, comunque, esige, non di rado, un lavoro di esame della documentazione e degli atti variamente impegnativo». Anche per questo, bisogna «escludere che l’iscrizione di un nominativo rappresenti “atto dovuto” con riferimento al soggetto cui il privato o la Polizia Giudiziaria attribuiscono il reato nella denuncia o nella querela». Il pm che ignora questa «buona prassi», prosegue la circolare, giunge a una «errata conclusione, frutto di una interpretazione impropria» del Codice di procedura penale.

È un criterio che vale per tutti e a maggior ragione deve valere quando di mezzo ci sono un presidente del consiglio ed esponenti di governo. Come mai Lo Voi, che è il successore di Pignatone e queste disposizioni le conosce bene, non lo ha adottato? Certo, davanti all’inconsistenza delle accuse resta l’ipotesi di una rapida archiviazione del fascicolo, prima che esso arrivi sul tavolo del tribunale dei ministri. Ma sarebbe comunque tardi per evitare lo scontro istituzionale e l’accusa ai magistrati di essere spinti da motivazioni politiche anziché giuridiche.

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