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Pd travolto da Trump: non ci ha capito nulla

Daniele Capezzone
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Sbagliare è umano, perseverare è Pd. E – per una volta – lo scriviamo senza sarcasmo, perfino senza ironia, e anzi quasi con una punta di sgomento.
Per tutta la campagna elettorale americana, la sinistra italiana aveva ripetuto a pappagallo gli argomenti che – a novembre – avrebbero finito per schiantare i dem Usa: la negazione dell’emergenza immigrazione, la sottovalutazione della questione sicurezza, la descrizione di Trump e Musk come due fascisti, e via ripetendo stereotipi e slogan non solo fuori fuoco, ma – quel che più conta – del tutto in antitesi rispetto ai sentimenti ultramaggioritari degli elettori, al di là e pure al di qua dell’Atlantico.

Si poteva supporre che, dopo il rovescio di Kamala Harris, anche i nostri dem potessero interrogarsi un poco, e riflettere con maggiore profondità sulla serietà della loro crisi.

Che non è solo una crisi elettorale: una sconfitta, in politica, è sempre possibile. Perfino un ciclo di sconfitte può fisiologicamente connotare un decennio: è successo anche al centrodestra sia americano sia europeo, in altri momenti. Ma qui la questione è più grave, meno superficiale, meno congiunturale: si ha la sensazione che i gruppi dirigenti della sinistra (politica, mediatica, culturale) abbiano completamente perso le chiavi interpretative della realtà, e dunque non siano proprio in grado di connettersi con le ragioni e i sentimenti di fasce sempre più ampie della popolazione.

Prendiamo le ultime settimane di dibattito politico in Italia a sinistra: posizioni scombiccherate e impopolari sul caso Ramy, sui fatti di Capodanno a Milano, sul pericolo islamico, sul ruolo di polizia e carabinieri.

Un po’ come andare contromano in autostrada. Anzi, come andare a sciare avendo in mano una racchetta da tennis. La sensazione è proprio quella di una drammatica sconnessione, aggravata da un senso di totale inconsapevolezza del problema. A sinistra – vale per i politici e ancora di più per editorialisti e opinionisti – si presentano in tv e sui giornali con la stessa sicumera di sempre ma parlando una lingua incomprensibile ai più, e suscitando più pena che rabbia, più tenerezza che dissenso.

Ripensate alla crociata delle ultime trentasei ore contro il presunto “saluto romano” di Musk: sui social è un diluvio di meme, di prese in giro, di ironie, ma il bersaglio è proprio la sinistra con le sue fisime e i suoi tic, le sue nevrosi e le sue ossessioni.

Un analista acuto e profondo come Stefano Folli si è interrogato su Repubblica sulla stessa capacità di manovra politica degli attuali gruppi dirigenti progressisti davanti al clamoroso voltapagina della storia imposto da Trump. Su un altro piano, a sua volta con onestà intellettuale, Alessandro De Angelis sulla Stampa ha sottolineato il parlar d’altro da parte di Pd e Cinquestelle, un loro ripiegamento su temi lontani e marginali rispetto al cuore del cambiamento in atto. Ecco, forse la situazione è ancora più grave di così: perché non riguarda solo ciò che gli americani chiamano “politics” (cioè la capacità politica) e neppure le “policies” (cioè le singole ricette e soluzioni programmatiche tema per tema).

Il disastro dei nostri compagni è ancora più radicale: riguarda la lettura della realtà, la comprensione del campo di gioco, un minimo di sintonia con i sentimenti che attraversano la società. Tutto questo non c’è e nemmeno si intravvede oggi a sinistra. Dove – è venuto il momento di dirlo – non hanno più solo un problema con Trump o con la Meloni, ma con se stessi, con la realtà e con gli elettori.

Prima se ne renderanno conto, e prima la democrazia italiana potrà forse disporre – se non di un’alternativa spendibile – per lo meno di un’opposizione che possa stimolare il governo, o evitare che la maggioranza si senta – per così dire – al riparo da qualunque insidia. Ma allo stato non si scorge nemmeno l’inizio di una presa di consapevolezza in tal senso.

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