Cerca
Cerca
+

Esistono due centri e si credono essenziali: "Un rebus avvolto in un mistero che sta dentro un enigma"

Francesco Damato
  • a
  • a
  • a

Spogliata di tutta la drammaticità del tempo in cui fu adottata da Churchill e della sua destinazione, che era addirittura la Russia di Stalin, o il comunismo più in generale, si potrebbe dire anche del Centro che è “un rebus avvolto in un mistero che sta dentro un enigma”. Esso non è stato risolto dai due convegni svoltisi come in una saga fra Milano e Orvieto nella presunzione -spero- di farsi capire dal pubblico attraverso le cronache giornalistiche. Dalle quali però non mi pare che si sia riusciti a comprendere granché. Questo è accaduto non per colpa dei giornalisti, per quanto avvezzi al linguaggio politico a volte competitivo con l’oracolismo, ma per la oggettiva astrusità dell’argomento e della stessa figura del Centro, sempre con la maiuscola, in un campo bipolare in cui si contendono la maggioranza del Parlamento e il governo del Paese un centrodestra e un centrosinistra.

Bisognerebbe allora parlare di due Centri. Ciascuno dei quali rivendica di essere l’unico valido, perché se fossero due o si eliderebbero a vicenda o dovrebbero avvertire quanto meno la tentazione attrattiva per scombinare il bipolarismo, se non si sentono abbastanza gratificati negli schieramenti di rispettiva collocazione. Ma curiosamente questa tentazione, almeno sinora non si avverte. Ciascuno dei due Centri rivendica l’essenzialità nel campo proprio. Come Antonio Tiajni, per esempio, con la sua Forza Italia nel centrodestra sentendosi erede non solo di Silvio Berlusconi ma anche di Luigi Sturzo e di Bettino Craxi. Ma un democristiano di origine controllata come Gianfranco Rotondi si ritrova meglio tra i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. La cui consistenza elettorale è ormai ben superiore a quella della destra di una volta e simile piuttosto a quella della Dc.

 

 

 

Nel Centro dell’altro campo non sanno ancora spiegare bene, perché forse non lo sanno ancora bene neppure loro, se debbono continuare a stare nel Pd per condizionare di più la segretaria Elly Schlein, o “assaltarla”, come è stato indotto a pensare Roberto Gressi sul Corriere della Sera, o proporsi autonomamente per scalate e prospettive meno ravvicinate, pensando per esempio alla scadenza del mandato di Sergio Mattarella fra quattro anni, come ha sospettato Mario Sechi. Perfidamente, avrà detto qualcuno degli interessati leggendolo ieri su Libero, ma non troppo perché obiettivamente e storicamente, fra prima Repubblica e edizioni successive le gare al Quirinale sono sempre cominciate con largo anticipo.

Quando perse quella col presidente della Camera Oscar Luigi Scalfaro per succedere al dimissionario Francesco Cossiga nel 1992, il presidente del Senato Giovanni Spadolini si consolò facendomi notare che dopo sette anni, alla scadenza del mandato del nuovo capo dello Stato, lui avrebbe avuto la “stessa età” del concorrente che lo aveva preceduto perché preferito, insieme, dai comunisti interessati alla presidenza che si liberava a Montecitorio, e da Craxi imprudentemente fermo al ricordo di Scalfaro come suo ministro dell’Interno fra il 1983 e il 1987.

 

 

 

Le ambizioni in politica sono tanto nascoste quanto prevedibili, scattono nelle corse al Quirinale fattori misti di politica e psicologia. Persino Sandro Pertini, all’età che aveva alla scadenza del suo mandato -89 anni nel 1985- pensava ad una rielezione. Ma si indignava se qualcuno ne scriveva, non capii mai se per il sottinteso scettico dei retroscena dedicatigli o per quel vezzo dei politici di apparire disinteressati quando invece sono interessatissimi. Lo furono, ai loro tempi, anche Amintore Fanfani e Aldo Moro, mancando entrambi il Colle più alto di Roma. L’unico a non avervi mai ambito, anche quando i suoi amici lo spingevano a votare contro Arnaldo Forlani che era segretario della Dc, oltre che candidato al Quirinale, fu Giulio Andreotti. Che scherzava apprezzando l’«aurea mediocrità» che si attribuiva. 

 

 

 

Dai blog