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Gualtieri vuole cambiare il nome alle vie del Quartiere Africano

Ginevra Leganza
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Si chiama quartiere Africano ma è il più italiano dei quartieri romani. È il quartiere capitolino del ceto medio. Il quartiere della toponomastica afro coloniale. Il quartiere Africano che la giunta Gualtieri – arrivata con dieci, venti o forse trent’anni di ritardo sulle battaglie wokiste –vorrebbe adesso stravolgere sollecitato della rete chiamata “Yekatit 12-19 febbraio”, che da anni si batte per «una riflessione collettiva sui crimini commessi dall’Italia durante il periodo colonialista». Cambiando le didascalie di ventiquattro strade e piazze celebrative dell’epoca coloniale. Via Tripoli “regione della Libia”? Diventa adesso via Tripoli “capitale della Libia”. Viale Eritrea “antico possedimento italiano sul mar Rosso”? Sarà viale Eritrea “stato dell’Africa orientale”. Ed è insomma quel ramo del quartiere Trieste su cui la giunta del sindaco di Roma ha puntato il faro. È l’italianissimo colonialissimo (fascistissimo) quartiere Africano che dopo corso Trieste, dà seguito al florilegio di Viali Eritrea, Libia, Somalia, Etiopia. E poi alle laterali vie Tigrè, Tripolitania, Gadames.

Il quartiere Africano è la discreta cerniera tra la Roma nord percepita (Parioli) e un altro mondo, assai più dimesso, che si estende dopo il fiume Aniene (la Roma di Monte Sacro, di Conca d’Oro, del quartiere Talenti). È il quartiere del ceto medio, s’è detto, e dunque della piccola borghesia erede dei bisnonni cui Mussolini aveva costruito le case vicino la ferrovia. L’isola serena della classe media che si riconosce, oggi, per l’attaccamento al luogo, e ai luoghi. Per l’affezione al quartiere che, in concreto, significa non andare quasi mai in centro.

 

 

 

Quasi mai a Trastevere, quasi mai a Testaccio, mai e poi mai a San Lorenzo. Standosene piuttosto al di qua della Sedia del Diavolo (che poi è il sepolcro di Elio Callistio, è un’architettura funebre di Roma antica): molto spesso in piazza Annibaliano. La piazza Annibaliano delle Finte bionde dei fratelli Vanzina, ve la ricordate. La piazza del «Te rendi conto – lo diceva Cinzia Leone – da piazzale Annibaliano, quartiere Africano, a via Archimede a Monti Parioli, che sarto de qualità”. “Sarto de qualità” o social upgrade che molto dice del quartiere dove gli indigeni, invece, al di là delle caricature di fine anni Ottanta, sono legatissimi.

 

 

 

Svogliati e incapaci di andarsene via come Cinzia Leone. Incapaci di abbandonare via Tripoli come la ragazza, giovane amica oriunda, inorridita dal fatto che il padre sognasse una vita in piazza Ungheria e addirittura contrariata – aveva tredici anni – da una possibile iscrizione al liceo Giulio Cesare. La scuola di cantata (e frequentata) da Antonello Venditti, vicino alla stupenda piazza Caprera, che però, appunto, è già quartiere Trieste.

Gli indigeni del quartiere Africano sono soprattutto legati, quindi, a quel tono elegante (nonostante i palazzoni intensivi di viale Eritrea) e dimesso (rispetto ai limitrofi Parioli). Ché se al Trieste – che dell’Africano è il parente ricco e omonimo amministrativo – la borghesia è in giacchetta di renna e beve caffè e grappe costose da Arcioni, al quartiere Africano, in piazza Annibaliano, c’è il caffè all’aperto tra i vinili. E tutto è più cheto – non lasso ma misurato – tra famiglie e studenti assortiti al Cinema Lux.

 

 

 

Per chi come noi ci abbia vissuto, seppure al confine con l’Aniene – là dove la toponomastica si fa melomane (era via Mascagni) e l’urbanistica non è fascista ma democristiana (con le strade più strette e più sgangherate) – il quartiere Africano è una specie di provincia a Roma. Un modo per ritrovarsi a casa, noi provinciali, in quel suo essere vicino al mondo ma non troppo. Benestante ma non troppo. Elegante ma non troppo. Periferico ma non più di tanto. In quel suo essere nella medietà delle cose che attrae.

Eche spinge, perlomeno gli indigeni, anon fuggire. Ad accettare la vita com’è (toponomastica inclusa). Anche se adesso la giunta Gualtieri punta il faro. E ritocca i toponimi nell’illusione, forse, di ritoccare i fatti. I nomi e la storia di un quartiere che invece ama essere immobile.

P.S. A proposito di periferie, è proprio vero che l’Italia è provincia del mondo. Persino nelle mode più cool, le mode dei campus americani, Roma arriva dieci venti o trent’anni in ritardo. La cancel culture? Il wokismo? Negli Stati Uniti ha vinto Donald Trump. Dopo Meta anche Ford, McDonald’s, Walmart hanno abbandonato il cancellismo dei programmi di diversità e inclusione. La giunta Gualtieri? Roma? L’Italia? Lenta come le sue littorine, si sa.

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