La sinistra si verogna della nostra identità: ecco l'antidoto alle follie progressiste
Le recenti iniziative del ministro Valditara meritano un convinto sostegno e un vivissimo apprezzamento. Se in altri ambiti culturali e mediatici si ha a volte la sensazione che il centrodestra non abbia sempre una gran voglia di impegnarsi nella battaglia delle idee, sul terreno scolastico la recente mossa del Ministro dell’Istruzione (più latino, più storia occidentale, più memoria) rappresenta finalmente un segnale nella direzione giusta. Sentiamo obiettare qua e là (anche in luoghi teoricamente insospettabili): «Ma a che serve il latino?».
Ecco, superiamo la tentazione di farci cadere le braccia, e rispondiamo con forza: serve a ragionare e a capire la modernità, non solo l’antichità. Verrebbe voglia – noi piccoli piccoli – di ripercorrere le orme di Machiavelli, e di trovare anche noi, come lui cinquecento anni fa, una grande consolazione nella lettura dei classici. Il passaggio della lettera machiavelliana all’amico Vettori è noto: «Rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente....». Proprio così: non si tratta solo di una lettura, ma di un dialogo, di uno scambio, di un essere accolti in una dimensione più intima e più profonda.
Altro che lingua morta, dunque: il latino è vivissimo (vale lo stesso per il greco, ovviamente). E non solo perché ci racconta una grande civiltà e un immenso impero, ma soprattutto perché ci fa misurare con l’essenza immortale dell’umanità: il potere, la natura, l’amore, l’amicizia, la corruzione, il dovere, la forza interiore.
Cito in ordine sparso e in modo del tutto arbitrario: e del resto ognuno ha la sua esperienza, i suoi ricordi, le sue preferenze. Catullo e la sua dolcezza (ma pure i suoi momenti di scherzo e feroce ironia). Cicerone e la sua solennità: la lingua che, come un’orchestra, articola concetti e suoni, persuasione e ragionamento. Lucrezio e la lingua trasformata in uno strumento di celebrazione della natura, portando il latino a livelli “fotografici” di descrizione della realtà.
Cesare e l’essenzialità: la lingua come paradigma quasi aritmetico, geometrico, di pragmatismo e razionalità. Virgilio e il raggiungimento del massimo standard classico: in qualche misura, se così si può dire, il compimento in poesia di ciò che Cicerone è per la prosa. E poi Seneca: una prosa limpida, specchio di chiarezza filosofica e morale. Diversamente da Cicerone, Seneca non declama, ma medita, connette casi singoli a riflessioni universali. Aggiungo due notazioni ulteriori.
La prima. È bene non dimenticare cosa sia stata Roma al massimo del suo splendore: un impero esteso dal Vallo di Adriano al Medio Oriente, dal Nord Africa al Nord Europa. La capacità di proporre a genti diverse un senso, una direzione, una cultura, un’identità. È perfino avvilente (lo ha fatto alcuni anni fa, in un bel saggio, l’ex premier britannico Boris Johnson) misurare il divario tra ciò che riuscì a Roma e le incerte e fragili sorti dell’attuale Ue. Da questo punto di vista, sono veramente scombiccherate le obiezioni di chi (penso a un intervento di ieri di Annalisa Cuzzocrea su Repubblica) sembra considerare un atto di ostilità verso immigrati e nuovi italiani una maggiore attenzione alla storia occidentale o ai nostri classici.
Vale la pena di ricordare, come facevo un istante fa, che Roma, al vertice della sua storia, arrivò a occupare il territorio di trenta attuali nazioni non solo europee. Eppure, pur dinanzi a questa vastità e a questa diversità, seppe offrire il valore della “romanizzazione”, di una “assimilazione” e di una “identificazione”, creando una cultura universale della romanità. Perché Roma, oltre e prima che un impero, era sin dall’inizio un’“idea”, per certi versi come l’America in epoca storica più recente. E allora ecco la capacità di cooptare le élites dei vari territori. Ecco uomini di cultura, scrittori, poeti, imperatori, provenienti dalle regioni più diverse: Seneca e Marziale dall’attuale Spagna, Diocleziano dalla Croazia, Costantino dalla Serbia, Settimio Severo dalla Libia, e così via. Ecco l’eredità e il debito culturale fortissimo verso la Grecia. Ecco (su un altro piano) la stessa idea dei giochi, ripetuti ovunque con schemi e – si direbbe oggi – “format” costanti, per creare un senso di identità e di appartenenza, tenendo indissolubilmente insieme il coraggio, l’aspirazione alla gloria e alla vittoria e il pericolo della morte.
Per quale arcana ragione ripercorrere questa storia “umilierebbe” i nuovi arrivati? Semmai, collocherebbe la stessa dimensione della “cittadinanza” nella giusta prospettiva: una conquista da meritare e un percorso da compiere, non un diritto da esigere, meno che mai disprezzando il luogo dove si arriva.
La seconda osservazione. Lo studio del latino (e del greco, così come – su un altro piano – della matematica) è importante soprattutto perché è difficile. La versione di latino è una cosa seria, è una prova dura: impone organizzazione mentale, uno sforzo di sistemazione di concetti e parole, un’attitudine alla risposta rapida a domande complesse, alla ricerca di soluzioni non scontate, alla scelta tra ipotesi diverse, alla valutazione di alternative. È l’essenza stessa del ragionamento. Chi vuole eliminare o limitare tutto ciò a scuola, ci trascina non solo verso una formazione più povera, ma - quel che è più grave verso una facilità spoglia, verso una mediocrità che ci lascia mentalmente disarmati, non allenati, prevedibili, banali, più indifesi.
Sarà bene tenerlo presente. Anche perché – compagni progressisti – cosa ci proponete in alternativa? Un bell’approfondimento politicamente corretto sulle colpe della civiltà occidentale? Una requisitoria contro la nostra parte del mondo? Una colpevolizzazione di un paio di millenni di storia passata? Non ve ne rendete conto, ma dall’odiosa cancel culture siete passati ad un’ancora più devastante shame culture: vorreste che ci vergognassimo di ciò che siamo. Molto semplicemente, non lo faremo.