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Benito è ancora un problema per il dibattito politico italiano

Giordano Bruno Guerri
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Durante il regime fascista gli italiani, parlando di Benito Mussolini – fra loro, in casa – lo chiamavano «Benito», non con il cognome, né «il duce», tanto era una presenza familiare nelle loro vite, detestata o più spesso amata. Da qui bisogna partire, per capire quell’epoca. Oltre alla violenza, alla mancanza di democrazia e libertà, le caratteristiche del fascismo che oggi ci colpiscono più sgradevolmente sono l’enfasi, la retorica, il fanatismo quasi mistico con i quali il regime e moltissimi italiani consideravano il duce, il fascismo stesso.

Facciamo fatica a credere che fossero stati d’animo sinceri: provoca un fastidio estetico, prima che intellettuale, immaginare gli italiani esaltarsi irrazionalmente per un uomo e un fenomeno del quale oggi sono chiari quasi a tutti gli enormi limiti e i grandi difetti. Inoltre decenni di antifascismo – per il quale tutto ciò che riguardava il fascismo era sbagliato, malvagio, ridicolo – sono stati determinanti nel fare accettare l’idea del regime fascista e di Mussolini come caricature degne solo di essere irrise, dopo la condanna. Questo stato d’animo rende pressoché impossibile capire cosa fu davvero il regime, cosa rappresentò il duce, e perché esercitarono tanta influenza sugli italiani.

 

 

«Benito» era una figura vicina, semplice, simile, eppure tanto più forte, qualcuno in cui era facile e bello identificarsi. Occorre dunque compiere lo sforzo retrospettivo di vedere quegli anni con la mentalità dell’epoca, per poterli equamente e ragionevolmente giudicare. A partire da un uomo che – a circa ottant’anni dalla morte – è ancora un problema nella storia d’Italia e nel dibattito politico. Ancora oggi, quando si parla di malvagità, errori, benemerenze del fascismo, si intendono quelle di Mussolini, benché il regime sia stato un fenomeno tutt’altro che monolitico: c’era un fascismo di sinistra, di destra, corporativo di varie tendenze ecc., ma dominò il mussolinismo. Non si realizzò il fascismo ideale, teorico, oligarchico – pur sempre un'inaccettabile dittatura – immaginato da Giovanni Gentile, Giuseppe Bottai e altri intellettuali, si ebbe il mussolinismo.

Il 24 giugno 1943 il duce disse «Venti anni di fascismo non sono passati invano nella vita italiana ed è umanamente impossibile cancellarli». È vero che quei vent’anni di mussolinismo hanno lasciato tracce incancellabili – e non delle migliori – nella nostra cultura, nel nostro modo di vivere. Del resto, lo stesso Mussolini, il 23 dicembre 1940, nel pieno del disastro della guerra alla Grecia, parlando con Ciano aveva pronunciato una frase terribile: «Gli italiani del 1914 erano migliori di questi di oggi. Non è un bel risultato per il Regime, ma è così».

Dal 1929 Benito veniva considerato – e si considerava – un grande capo destinato a passare alla storia, non solo in Italia. Aveva raggiunto il suo scopo. Ora doveva rendersi eterno. In gioventù era stato un attento lettore di Gustave Le Bon, studioso di psicologia delle folle, e aveva presente un suo aforisma: «Una credenza religiosa o politica si fonda sulla fede, ma senza i riti e i simboli la fede non potrebbe durare».

L’operazione che realizzò con il fascismo fu trasformare un’idea politica in una fede e sé stesso nel suo dio. Il duce possedeva davvero le doti fascinatorie esaltate in ogni modo dai suoi biografi del tempo e in più era già circondato da un alone gigantesco di miti. Benito era il fascismo il fascismo era la patria, quindi Mussolini era la patria e non poteva non diventare anche il modello dell’italiano: nel duce il popolo poteva e doveva adorare sé stesso. Quindi il suo carisma fu rafforzato e istituzionalizzato dalla propaganda, diventò il medium tra la fede delle masse e il futuro della nazione, una «missione storica» faceva di lui il profeta, l’eletto, l’unto di Dio.

Dove non arrivarono Mussolini e la propaganda, intervenne l'ego degli italiani. All’inizio degli anni Trenta il duce (anzi, il DUCE, come il segretario del partito Achille Starace impose che si scrivesse) aveva già assunto le caratteristiche di una divinità egizia e diventò il prodotto principale della fabbrica del consenso, per mutuare espressioni del nostro tempo: Mussolini veniva rappresentato «come la somma e la sintesi superiore d'ogni tipo di grandezza d'uomo e di pensiero e d'uomo d'azione mai apparsi in qualsiasi epoca: statista, legislatore, filosofo, scrittore, artista, genio universale ma anche profeta, messia, apostolo, maestro infallibile, inviato da Dio, eletto dal destino e portatore di destino», scrive Emilio Gentile in Il culto del littorio. I paragoni si sciupavano: erano continuamente messi al suo confronto Cesare e Cavour, Napoleone e Garibaldi, Machiavelli e Mazzini, persino Socrate e san Francesco.

Nella Scuola di mistica fascista, frequentata da giovani intelligenze, alcune non banali, veniva studiato nei dettagli ogni discorso o scritto mussoliniano. Non si trattò soltanto di un delirio collettivo o di una sottile quanto complessa strategia propagandistica. La deificazione del duce era connaturata alla religiosità civile della maggioranza del popolo italiano, ancora impastata con forti elementi di superstizione. Benito rappresentava la miscela micidiale di patriottismo religioso e rivoluzione, ortodossia ai valori civili e sradicamento delle norme.

Non fu solo un’adulazione collettiva imposta dall’alto, come troppo e troppo a lungo sostenuto, e neppure soltanto una manifestazione dell’ingenuità e dell’ignoranza popolari. Il sentimento di adorazione verso Mussolini, che travalicava ogni propaganda per divenire coscienza individuale e stato d’animo collettivo, era genuino in molti – ignoti o illustri – che lo manifestarono.

 

 

 

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