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Elly Schlein terrorizzata dalla ragnatela di Gentiloni

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Ma quale Ruffini, ma quale Sala, ma quale aspirante mini-federatore di un cespuglio centrista: non è questa la preoccupazione di Elly Schlein, cheanzi vedrebbe di buon occhio (chiunque la guidi)la nascita di una formazione medio-piccola da sommare ai grillini, ai piueuropeisti, ai rossoverdi. A quel punto sarebbero quattro le liste di supporto al Pd: nessuna così piccola (tranne i boniniani) da essere pressoché irrilevante, ma nessuna così grande da porre problemi politici al Nazareno. 

Ciò che invece spegne il sorriso alla segretaria del Pd, oltre all’attivismo prodiano (che di per sé esprime un’insoddisfazione latente rispetto alla leadership schleiniana: se tutto andasse bene, non ci sarebbe spazio per le prediche e le rampogne di Prodi), sono due fatti politici ben precisi. Primo: nonostante quanto vanno dicendo in giro i cerberi schleiniani, nessuno – nemmeno nei più alti palazzi della politica e delle istituzioni romane – prende sul serio la candidatura di Elly a Presidente del Consiglio. Nessuno – direbbero i britannici – la vede prime ministerial, cioè capace di passare da una dimensione impolitica e movimentista a quella di una possibile premier di un paese del G7. E nessuno la considera in grado di sfidare credibilmente Giorgia Meloni.

 

 

 

Curiosamente, sia in ambienti di destra che di sinistra, la parola usata con più sarcasmo per bollare Schlein è “la polizza”, nel senso di polizza assicurativa. Come dire: finché c’è Schlein, Meloni può dormire sonni tranquilli. Sì certo, il Pd realisticamente crescerà ancora assorbendo altri segmenti di voto grillino e riducendo al vassallaggio politico le altre liste di centrosinistra: ma l’Agenda Schlein (tra dirittismo e lagna sulla sanità, peraltro dopo dieci lunghi anni di governi piddini) non è in grado di impensierire il centrodestra. Realisticamente, da qui a fine legislatura, l’esecutivo Meloni continuerà a giocare benissimo “in trasferta” (cioè in politica estera), mentre tenderà a correre qualche rischio di fare melina “in casa”: ma si tratterà comunque di un ruolino di marcia più che sufficiente per vincere nel ’27, se l’alternativa sarà rappresentata da Elly.

Proprio perché nessuno la percepisce come un’alternativa credibile. E allora qui scatta il secondo – e ben più grave – grattacapo di Schlein: una preoccupazione di nome Paolo. Paolo – inutile dirlo – è Gentiloni, già Presidente del Consiglio e appena uscito dal palazzo della Commissione Ue. Non credete a un suo disimpegno: forse in altri momenti aveva pensato a se stesso per il Colle, ma il 2029 è lontanissimo, e anche allora potrebbe esserci un Parlamento a maggioranza di centrodestra.

 

 


E allora il primo treno politico che passa per Gentiloni è quello di vestire i panni di nuovo “Prodi” della sinistra. Lui – Gentiloni – si percepisce come un «Draghi (appena) minore», depositario di una rete di relazioni internazionali significativa, a partire dai francesi che notoriamente lo adorano. Negli anni della Commissione Ue, è stato ascoltatissimo al Quirinale. In caso di rinnovato impegno politico in Italia, Gentiloni è convinto – non senza ragione – di non avere veti su di sé: in altre parole, oltre a ottenere agilmente l’ok di tutte le attuali liste di centrosinistra, l’ex commissario è persuaso di poter coinvolgere in un’alleanza più larga sia Renzi sia Calenda, i quali – per ragioni diverse – oggi non troverebbero agibilità politica in una coalizione guidata da Schlein e con una golden share nelle mani nientemeno che di Bonelli & e Fratoianni.

Qual è, dunque, il calcolo di Gentiloni? Sa di non disporre di uno straordinario appeal popolare. Sa anche che in politica le coalizioni larghe e composite producono sempre un risultato inferiore alla pura e semplice somma degli addendi. Ma – ecco il punto – ritiene di essere l’unico che non subirebbe veti e che potrebbe rappresentare una “leadership light” tale da andar bene più o meno a tutti nel centrosinistra allargato. Ieri mattina quelli che tifano Gentiloni si sono divertiti a fare un po’ di addizioni leggendo i sondaggi pubblicati su alcuni giornali: in questo momento il centrosinistra sarebbe fuori partita, ma un’ammucchiata con tutti dentro (inclusi i centristi vecchi e semi-nuovi) porterebbe i progressisti a diventare almeno numericamente competitivi.

Certo, resterebbero alcuni veri e propri macigni programmatici (politica estera, energia, ambiente): ma sono pochissimi, a sinistra, quelli che si pongono il problema delle compatibilità sui contenuti. I più si accontentano di preparare un’ammucchiata. Elly non può garantirla, Gentiloni invece sì. E allora sta qui il retrogusto amaro dello spumante con cui Schlein brinderà per Capodanno: il 2025 rischia di essere non l’anno della sua consacrazione, come sperava, ma quello di un suo progressivo accantonamento. Gentiloni – che pensa a tutto – avrebbe già una soluzione o un premio di consolazione per lei: Schlein resterebbe come segretaria del Pd, e quindi potrebbe intestarsi l’ulteriore crescita che realisticamente il partito registrerà. Ma per la sfida del 2027 per Palazzo Chigi sarebbe lui a scaldare i muscoli, non lei.

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