Acca Larenzia, la sinistra gioca d'anticipo per dividere e cancellare la memoria
Finora non era mai accaduto che si chiedesse, addirittura prima di Natale, al ministro degli Interni di vietare il ricordo dei tre ragazzi missini uccisi a Acca Larenzia il 7 gennaio del 1978. Lo ha fatto l’Anpi, ormai appendice dei partiti di sinistra, tramite il suo capo Pagliarulo: «Chiediamo al ministro Piantedosi di vietare il raduno di Acca Larenzia in base all’articolo 17 della Costituzione per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica».
È evidente che si tratta del primo tassello di una narrazione che deve essere pronta per gennaio: i cattivi che fanno i saluti romani, il governo ancora più cattivo che li tollera, la sinistra buona e antifascista che protegge la città dalle camicie nere e dalle braccia tese. Forse dietro c’è anche un’altra strategia, tutta politica: andare a rafforzare proprio quel movimento di CasaPound che viene indicato sulla carta come nemico ma che in realtà è l’organizzazione che dall’estrema destra può andare a scalfire il carisma di Giorgia Meloni, la quale si è tirata fuori da tempo dall’uso strumentale delle vittime e di destra e di sinistra. Sottraendosi con questa scelta alla fragilità di una memoria pubblica che ormai nessun patto sorregge e legittima.
È saltato infatti l’altrettanto debole patto sancito agli albori della Seconda Repubblica e in base al quale si restituiva pari dignità anche alle vittime delle foibe e al sangue dei vinti (titolo di un fortunato libro di Giampaolo Pansa).
Oggi quel tentativo di memoria condivisa è andato in frantumi: le foibe vengono giustificate, il sangue dei vinti relegato negli anfratti della cattiva coscienza innominabile. Compreso il sangue dei tre ragazzi di Acca Larenzia. Le memorie di fazione, in questo clima e in tale contesto, hanno il sopravvento. Giovanni De Luna in un libro di qualche anno fa – La Repubblica del dolore – sottolineava che oggi la memoria nazionale si basa sulla centralità del lutto e delle vittime. Troppo poco. Prima della memoria da condividere ci dev’essere una storia nazionale condivisa. Traguardo lontanissimo oggi.
Ma torniamo a Acca Larenzia. Un nome che dovrebbe evocare vergogna e pentimento. Pietà civile per la sorte di tre ragazzini i cui colpevoli mai furono trovati anche perché di lì a poco l’Italia sarebbe stata scossa dal rapimento e dall’uccisione di Aldo Moro. Acca Larenzia. Un nome che dovrebbe suscitare rispettoso silenzio e che invece, con un incredibile ribaltamento semantico, diviene sinonimo di “lugubri parate neofasciste”. L’immagine dei saluti romani si sovrappone a quella dei volti di tre innocenti. È lo sfregio definitivo alla loro memoria. È una deriva cui i più sensibili, i più responsabili, assistono con dolorosa impotenza. È il tempo in cui si negano strade a Sergio Ramelli, si dimentica l’omaggio di Sandro Pertini a Paolo Di Nella morente, si predicano in cattedra le botte ai fascisti, si urlano gli slogan truculenti di quattro decenni fa. Eppure per spegnere queste fiamme pericolose (non quelle di simboli innocui) basterebbe poco. Ad Acca Larenzia dovrebbe andarci il sindaco di Roma.
Avrebbe già da tempo dovuto andarci il sindaco di Roma. Ma mancando verità e giustizia su troppi episodi di quegli anni che sono rimasti oscuri, restano solo rancore, ferite, nodi irrisolti. Non c’è uno spazio pubblico comune dove ritrovarsi. Resta il piccolo cortile di Acca Larenzia, dove diciottenni incolpevoli furono crivellati di colpi. Restano le loro urla e quelle degli altri che si chiusero nella sede del Msi, il suicidio del padre di uno di loro, l’uccisione di un altro che era accorso lì come tutti i missini di Roma, colpito da una pallottola “vagante” (secondo i testimoni presenti sparata da un carabiniere). Troppa rabbia contenuta in quel cortile. Troppe lacrime.
In tanti ricordano. In tanti ricordiamo.