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Ruffini faccia chiarezza sul suo futuro politico: questione di rispetto verso gli italiani

Pietro Senaldi
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Circola da settimane voce che il palermitano di natali democristiani Ernesto Maria Ruffini potrebbe diventare il federatore del campo largo della sinistra, o quantomeno l’uomo di punta dell’anima della coalizione che più si colloca vicina al centro. Si tratta di una faccia tutt’altro che nuova per la politica nostran, essendo un frequentatore della Leopolda fin dalla prima ora. Al Pd deve molto: Renzi lo ha fatto capo di Equitalia, Gentiloni lo ha promosso alla direzione dell’Agenzia delle Entrate, Conte ce lo ha lasciato su suggerimento di Gualtieri. Lo hanno confermato pure Draghi, e si capisce, e l’attuale governo, e questo è più nebuloso. In ogni caso è segnale che è uomo di ottime conoscenze, apprezzato trasversalmente. Il punto però non sono le qualità tecniche del personaggio, che peraltro sta agendo in forte dissonanza con la politica del fisco amico promessa dal governo. Il tema è l’imparzialità della Pubblica Amministrazione, che il contribuente italiano, che paga fior di tasse, deve percepire, vedere e toccare con mano.

Per rispetto dei cittadini, e dello Stato, urge chiarezza, ma Ruffini si guarda bene dal fornirla. Il direttore assiste da troppo tempo alle indiscrezioni su una sua discesa in campo senza una conferma, che ne comporterebbe necessariamente le immediate dimissioni, né una netta smentita. Ascolta, si bea della potenziale candidatura, partecipa a convegni e appuntamenti dove si lancia in frasi sibilline («non possiamo essere solo spettatori») e parla dei massimi sistemi, di giustizia sociale, di funzionamento dello Stato, più che dei particolari tecnici in cui consiste il suo lavoro.

 

 



Pare quasi che il suddetto prenda tempo, annusi l’aria, soppesi le proprie potenzialità, sondi l’opinione pubblica, aspetti il momento; o forse che qualcuno glielo chieda, magari il prossimo 18 gennaio, quando Graziano Delrio radunerà i cattolici del centrosinistra. L’ex ministro dem smonta l’ipotesi, ma due big come Romano Prodi e Dario Franceschini sono pronti a sostenerla. Anche sull’ultima suggestione giornalistica, quella che effettivamente starebbe per mollare a fine anno, interrogato dalla stampa, Ruffini ha fatto il vago. Ora però è venuto il momento di dire basta. Il gioco è bello se dura poco. Il palermitano di natali democristiani si metta nei panni del contribuente che serve, delle istituzioni che rappresenta e del governo che l’ha confermato dove sta. A questi tre soggetti deve una risposta rapida, inequivocabile e definitiva.

Come fa un cittadino che riceve una cartella esattoriale a fidarsi dell’uomo al vertice della piramide che gliela manda? Penserà che è un comunista, quantomeno un avversario della maggioranza, o comunque l’autore di un gesto politico. È palese che l’ambiguità del direttore dell’Agenzia delle Entrate indebolisce il ruolo di un’istituzione che dev’essere terza e la cui direzione è incompatibile anche solo con l’idea di un futuro politico. Non è una novità che Ruffini non sia in sintonia con questo governo: lo dicono la sua storia, le sue parole e quel che sta facendo, inondando l’Italia di cartelle esattoriali. Questo non significa però che egli possa continuare a mancare di rispetto a chi, non applicando la logica dello spoil system, si è fidato di lui, della sua imparzialità e del suo stile, che gli imporrebbero di fare quel che ancora non fa. Forse sarebbe il caso che qualcuno lo sollecitasse a una maggiore responsabilità a un maggiore rispetto del suo ruolo. Con il fisco non si scherza; non solo quando si tratta di pagare le tasse, ma soprattutto quando si tratta di esigerle.

 

 

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