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Maurizio Landini smascherato dai veri numeri: occupazione, la prova ammazza-scioperi

Sandro Iacometti
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Lui, c’è da scommetterlo, non indietreggerà di un millimetro. Continuerà a dire, come ha fatto spesso in passato, che i numeri non contano nulla, che i dati vanno interpretati, che bisogna parlare con la gente per capire veramente in quale baratro il Paese sta cadendo. Ma per quante frottole possa raccontare, per Maurizio Landini e il suo appello alla «rivolta sociale» quella arrivata ieri dall’Istat è una sberla devastante. A pochi giorni dallo sciopero generale, che solo agli occhi del leader della Cgil e dei giornali amici è stato un successone (in piazza sono scesi più altro cassintegrati, pensionati, movimenti antagonisti e pro-pal), i numeri snocciolati dall’Istituto di statistica, con una tempistica letale per la narrazione del sindacalista, fanno letteralmente a pezzi la retorica declinista dell’ex Fiom proprio sul fronte del lavoro, terreno che, almeno sulla carta, dovrebbe essere in cima ai pensieri di Landini. Hai voglia a dire che il governo sta distruggendo il lavoro, mina la coesione sociale, spolpa i redditi delle famiglie.

Numeri alla mano, e se vanno presi sul serio quando sono negativi lo stesso va fatto quando ci dicono che splende il sole, l’Istat ha registrato ad ottobre un triplete di record che riesce difficile nascondere sotto il tappeto. Dopo il calo di settembre, festeggiato da Landini con lingue di Menelik e stelle filanti, ad ottobre il mercato del lavoro è tornato a fare faville. Il numero degli occupati è tornato a crescere (+47mila unità sul mese, +363mila sull’anno), attestandosi a 24 milioni e 92 mila. L'aumento coinvolge i dipendenti permanenti che salgono a 16 milioni 210mila - e gli autonomi, pari a 5 milioni 158mila. I dipendenti a termine scendono invece a 2 milioni 724mila. E già qui ci sarebbe parecchio da insegnare a Landini e ai suoi amici della sinistra, a partire dalla segretaria del Pd Elly Schlein, che continua ossessivamente a parlare di precariato mentre i posti fissi non sono mai stati cosi alti e quelli a tempo mai così bassi.

 

Ma la lezione è appena iniziata. Il tasso di occupazione è infatti salito al 62,5%, toccando il livello più alto mai registrato dall'inizio delle serie storiche. Stesso primato per il tasso di disoccupazione giovanile, tallone d’Achille dell’Italia da decenni, indicatore su cui solitamente si punta il dito per denunciare la differenza con le medie europee. Ebbene, per quanto ancora elevata, la percentuale è scesa al 17,7% (-1,1% rispetto a settembre), che il dato più basso mai registrato nel nostro Paese. Vogliamo festeggiare, pur senza attribuire meriti al governo? Per carità, oggi qualche economista dem ci spiegherà che si tratta di un’illusione ottica e che basta fare un giro in qualche università per capire che i nostri talenti stanno tutti scappando all’estero, in fuga da un Paese che non offre opportunità.

L’ultimo dato rilevante diffuso ieri dall’Istat non rappresenta un record storico, ma ha anche lui le sue buone ragioni per costituire l’ennesima smentita delle balle raccontate dai sindacati in piazza. Il tasso di disoccupazione è sceso al 5,8% (-0,2%), che non è solo il livello più basso dall’aprile del 2007 (prima della grande crisi dei debiti sovrani e dei mutui subprime da cui ancora non ci siamo del tutto ripresi), ma è anche una percentuale più bassa di quella registrata nello stesso mese in Europa. Già, perché a ottobre l’eurozona si è attestata al 6,3%, mentre la Ue si è fermata al 5,9%. Dati esattamente identici a quelli di settembre. In altre parole, mentre l’Europa è rimasta ferma, noi abbiamo avuto un miglioramento nel mondo del lavoro. Siamo a cavallo e possiamo far garrire le nostre bandiere? La strada da fare, in realtà, è ancora lunga, ma da qui ad invocare «la rivolta sociale» perché il Paese sta andando allo sbando ce ne passa.

 

Quello che preoccupa davvero, e Landini ovviamente ieri ci si è avventato nel tentativo di trovare uno straccio di giustificazione al suo sciopero generale e alla sua grande mobilitazione, è la crisi della manifattura. L'Indice Pmi italiano - indicatore composito a una cifra della prestazione del settore derivato da indicatori relativi a nuovi ordini, produzione, occupazione, tempi di consegna dei fornitori e scorte di acquisto - ha segnato a novembre 44,5 punti, in discesa dai 46,9 di ottobre e sotto i 45,7 punti attesi dal mercato. Dopo i precedenti tre mesi di declino consecutivo, l'indice principale è calato al livello minimo in un anno.

Di questo bisogna occuparsi. Ma non con proteste contro il governo, bensì con politiche europee più adeguate a garantire la competitività delle nostre imprese. La manifattura, infatti è in calo in tutta Europa (l’indice Pmi dell’Ue è sceso da 46 a 45,2) e uno dei motivi principali è la crisi dell’automotive, soprattutto in Germania, provocata dalla dissennata accelerazione di Bruxelles sull’auto elettrica. Frutto di quel green deal ideologico che, guarda un po’, piace tanto a Landini & C.

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