Sindacati, pro-Pal, collettivi: nasce il partito sfascista contro il governo Meloni
Finché le P38 resteranno un gesto fatto con le dita, ogni parallelismo con gli anni Settanta sarà esagerato. Ma ormai, per quanto importante, è l’unica vera differenza rimasta. Gli altri ingredienti di allora sono già lì, a partire da una “piattaforma” della mobilitazione in cui c’è di tutto: i rinnovi dei contratti, l’antifascismo, l’opposizione politica al governo e la campagna per la «pace». Quest’ultima, ovviamente, strumentale alla battaglia contro i nemici della sinistra: all’epoca gli Stati Uniti, oggi Israele.
Stavolta, in più, nel grande calderone c’è una sfida al «patriarcato» impastata di ipocrisia. La connivenza con le posizioni dei macellai di Hamas che caratterizza le «transfemministe» di “Non una di meno”, l’invito a parlare nell’università di Torino rivolto dai collettivi studenteschi alla dirigente di un’organizzazione terroristica palestinese, l’immagine di Giuseppe Valditara bruciata ieri in una manifestazione contro la violenza sulle donne, non solo illuminano il caos che è nelle teste dei protagonisti di queste vicende, ma confermano che le anime della rivolta si sono contaminate, sino a fondersi in un unico movimento. Chi manifesta e sciopera per una causa, lo fa anche per tutte le altre. Soprattutto, lo fa per dare al governo quella spallata che in parlamento la sinistra non ha la forza di dare.
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La spinta al disordine sociale è grande e Maurizio Landini è il suo profeta, l’unico leader credibile e possibile. Persino la movimentista Elly Schlein, che ha trasformato il Pd in un’assemblea studentesca permanente, trova chi la contesta in piazza (è successo a Torino), accusandola di complicità con la perfida «entità sionista»: la verità è che non le perdonano il cognome, gli antisemiti di oggi vestono rosso e parlano la lingua woke. Il segretario generale della Cgil no, certi rischi non li corre.
Ieri ha spiegato perché la «rivolta» da lui invocata è necessaria: «Non è un richiamo alla violenza, è la rivolta di ogni singola persona a non girarsi di fronte alle disuguaglianze. La rivolta sociale e la lotta per la pace sono la stessa cosa». Anche se il laico Landini non se ne rende conto, ricorda tanto i predicatori estremisti islamici quando vogliono convincerti che per loro la jihad è «lotta interiore», mica altro.
Le sue parole segnano l’inizio di una settimana di passione. Dalle 21 di ieri si sono fermati i treni, per lo sciopero indetto da alcune sigle autonome, e venerdì 29 si celebrerà lo sciopero generale di ventiquattr’ore voluto da Cgil e Uil contro «le scelte ingiuste e sbagliate del governo». Una lunga lista di accuse che include «l’attacco alla libertà di manifestare il dissenso»: strizzata d’occhio ai movimenti antagonisti e della sinistra studentesca, uno dei quali, l’Unione degli universitari, è regolarmente foraggiato dalla confederazione di Landini, che gli ha versato 145mila euro nel 2022 e 130mila nel 2023. Il liquido necessario ad alimentare la protesta che prova a ripartire dalle università: alla Sapienza di Roma, come in altri atenei, la violenza e il bavaglio sono monopolio dei gruppi di sinistra, nel solito silenzio complice del Pd.
Sempre venerdì si svolgeranno manifestazioni di Cgil e Uil, con Landini sul palco di Bologna a certificare la liberazione partigiana della città, dopo che alcuni movimenti di destra si sono permessi di rivendicare il loro diritto a scendere in piazza. Sarà un’altra occasione per combinare l’ostilità al governo alla mobilitazione pro-Pal. Lo stesso Landini ieri ha difeso il mandato d’arresto emesso dalla Corte penale internazionale nei confronti di Benjamin Netanyahu, perché «non si può certo dire che i giudici ragionano in termini politici», e ha accusato il governo Meloni di non fare ciò che dovrebbe: «È necessario che assuma un orientamento diverso per fermare la guerra».
Questi e gli altri slogan hanno un limite evidente: non spostano un voto, perché parlano a chi già la pensa in quel modo. Perciò è necessario lo sfascio, da creare anche con i grandi scioperi che paralizzano l’Italia: per produrre malcontento in chi non ne ha o ne ha poco, per diffondere il racconto di un Paese che una destra «unfit to rule», inadeguata a governare, non riesce a far funzionare.
Impresa complicata, quella del partito dello sfascio: dal 25 settembre 2022 a oggi il consenso per le sigle della maggioranza non è sceso di mezza tacca. Ma altre strade Landini e compagni non ne hanno, il confronto civile e democratico per loro non funziona, e il prezzo intanto lo pagano quegli italiani che la «rivolta sociale» vorrebbe portare dalla propria parte.
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