Candidature e territori: la corsa al centro non è sempre vincente
Vi ricordate gli squilli di tromba evocati da Pierluigi Bersani dopo la vittoria del centrosinistra in Sardegna? Ora le trombette sono diventate tromboni, sull’onda della presunta marcia trionfale in Emilia Romagna e Umbria. La canonizzazione per Elly Schlein procede a passo spedito tra interviste, complimenti, sussulti di orgoglio identitario. Ma solo poche settimane fa, dopo la batosta ligure, ci raccontavano che Elly rischiava, che nel partito si mugugnava, che ci voleva più centro, il benedetto centro che tutti invocano quando perdono. E non si riesce a capire se la riconquista di Palazzo Chigi deve avvenire grazia alla linea radicale di Schlein o grazie alle sirene centriste. Vai a capire. Prima che Antonio Decaro diventasse il personaggio di punta della nuova classe dirigente dem destinato in Puglia a succedere a Emiliano, l’ex sindaco di Bari era un rompiscatole che criticava il Pd. Due anni fa diceva: «Sono iscritto al Pd dal 2008 e in questi 14 anni, come avrebbe detto il replicante di Blade Runner, ho visto cose che voi umani... Ho visto persone incapaci che, avendo trovato la corrente giusta si sono ritrovati in ruoli di governo. Ho visto amici di infanzia litigare per un posto di sottogoverno. Ho visto riunioni, chat, trattative in cui si faceva finta di parlare di politica ma si parlava di politici. Ho visto gente che ha imparato benissimo a parlare in un talk show ma non sa più parlare a un lavoratore». La situazione è cambiata? Ma certo che no. E allora basta ghirigori dialettici sulla classe dirigente che mancherebbe alla destra mentre a sinistra sarebbe addirittura sovrabbondante. La vittoria la fa, al 90%, il candidato.
Un discorso che vale pure per il centrodestra, dove si assiste a un poco elegante tiro a segno contro Stefano Bandecchi perla scoppola umbra. Dicono che ha giocato a fare il Trump italiano? Ma quando mai. Era così anche prima che vincesse Trump. Così come avvenuto a sinistra con la sberla ligure anche nel centrodestra affiora tanta voglia di moderatismo. Tra un Maurizio Lupi che canta vittoria perché in Umbria ha preso il 3% e quelli che fino a ieri applaudivano The Donald e oggi affermano che i populismi sono tramontati. In questo mare di chiacchiere la percentuale di chiva a votare declina in modo inarrestabile. Per forza. Che si torni a parlare di candidature convincenti e trainanti, please. E si faccia un election day che ci mandi a votare tutti insieme e una volta sola.
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LA SELEZIONE
Un vecchio militante mi ha detto. «Se hai un buon sindaco, uno che tutti salutano per strada, perché il segno che è bravo è quello, non lo portare in Parlamento a pigiare bottoni, mettilo a fare scuola agli altri. Quelli che non sono capaci. Bisogna dirlo a Giorgia». Ma come si riconosce un candidato vincente e trainante? Vi ricordate il kit che distribuiva Berlusconi, coi suggerimenti sul sorriso a trentadue denti e gli slogan sottolineati? Non serve a nulla. E anche i sondaggi, ricordiamocelo, possono sbagliare. Il candidato vincente potrebbe essere quello che non è convinto di vincere ma fa campagna elettorale come se avesse già la vittoria in tasca. Insomma uno che dentro di sé coltiva il motto spavaldo di Rhett Butler, affascinato dalla cause perse «quando sono proprio perse».
Chi si aspettava ad esempio nella prima stagione del Polo delle libertà (dal 1993 al 1995) il successo dei sindaci provenienti dalle file missine? Erano personaggi a loro modo dirompenti, imprevedibili e fuori dagli schemi. Nicola Cucullo, sindaco di Chieti dal 1993 al 2004, detestava le lungaggini burocratiche e, se un appalto non gli garbava, usciva di notte col piccone e abbatteva il manufatto. Ajmone Finestra a Latina affittò una mongolfiera per vedere il territorio dall’alto e volle rifare la piazza centrale come l’aveva voluta il Fascio. Con le siepi nane.
«Sono impresentabile? Me ne frego». Però pigliava il 62 per cento. A Crotone il missino Pasquale Senatore, dopo aver espugnato la Stalingrado del Sud, impose prima di ogni seduta del consiglio l’ascolto dell’Inno di Mameli. Quelli di sinistra uscivano dall’aula. «Ma io mi diverto moltissimo, non demordo».
LOCALE
La loro forza non era però il nostalgismo o il gusto della provocazione. No, la loro forza era la conoscenza del territorio. Pasquale Viespoli, già sindaco di Benevento, mi spiegò una volta che bisognava differenziarsi tanto dalla demagogia delle giunte rosse quanto dall’affarismo che era il carattere principale delle vecchie giunte di pentapartito. E poi, il territorio bisogna conoscerlo davvero. Bisogna starci. Girare. Stringere mani. Francesco Storace, candidato nel collegio Aurelio-Balduina nel lontano 1994, in un dibattito coi suoi avversari se ne uscì così: «Ma voi li conoscete i problemi del mercato di piazza Gregorovius?». E quelli muti. Non sapevano che quella piazza in quel collegio non c’è. Vecchia scuola, okay, ma un po’ di ripasso ci sta. Si dice, infine, che il problema di Giorgia Meloni sarebbe che «non riesce a chiudere la porta all’ala estremista» (Stefano Folli su Repubblica). Sarà pure così, ma secondo me il problema della destra è quello di sempre, definibile come «sindrome di Elspat». Chi era Elspat? Era la protagonista di un racconto di Walter Scott, la vedova delle Highlands, che ben si adatta a essere il simbolo di una destra in perenne transizione. Elspat è moglie di un capoclan scozzese ma l’amato figlio si arruola in un reggimento inglese anziché seguire la legge dei ribelli. La madre lo addormenta con un filtro impedendogli di raggiungere i suoi commilitoni provocandone la condanna a morte come disertore. Per Elspat è il fallimento totale, infatti impazzirà e verrà additata come strega. Ecco il punto: fare politica o fare testimonianza? È questo sentimento che cova a destra, non l’estremismo, non la nostalgia. I leader lo sanno e devono fare la loro scelta, per non farsi logorare dall’eccessiva adorazione e dal livore del risentimento.
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