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Ecco perché il federalismo è la via per la libertà moderna

Francesco Carella
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Vale la pena di leggere la recente sentenza della Consulta sull’autonomia differenziata con la lente della “lunga durata”, per meglio comprendere, al di là dei rilievi costituzionali, ciò che il federalismo e il decentramento dei poteri rappresenta nella storia d’Italia dall’Unità in avanti.

Peraltro, già nel 1948 Carlo Cattaneo scriveva che «ogni popolo può avere interessi da trattare in comune con altri popoli, ma vi sono interessi che può trattare egli solo, perché egli solo li sente e l’intende... il federalismo è l’unica possibile via della libertà». Ne era convinto uno dei più autorevoli esponenti della Destra storica, Luigi Carlo Farini, il quale pensando, nel maggio 1860, alla forma da dare all’ordinamento del nascente Regno d’Italia propone «di conciliare l’autorità centrale dello Stato con le ragioni dei comuni, delle province e di altri centri più vasti come le regioni».

In tal senso, si sviluppò nel 1861 il progetto presentato in Parlamento dal ministro Minghetti basato su un decentramento amministrativo assai più ampio di quello previsto dall’attuale legge sull’autonomia differenziata. Non se ne fece nulla perché prevalsero le preoccupazioni legate alla fragilità di uno Stato appena costituito e già minacciato da una potente spinta disgregatrice proveniente dal Mezzogiorno con il brigantaggio.

COSTRUZIONI ARTIFICIALI
Ma l’idea che il potere centralizzato potesse ostacolare i processi di modernizzazione di un Paese segnato da una profonda differenza per storia, territorio e cultura rimase al centro della riflessione politica sia nell’Italia liberale che in quella repubblicana. A tal proposito, è d’obbligo citare la relazione che Don Luigi Sturzo tenne nel 1921 al congresso del Partito popolare a Venezia.

Egli respinge la tesi di coloro che sostengono che le regioni siano costruzioni artificiali e dopo avere ricordato che «esistono come unità specifica di lingua, di storia, di costumi, di affinità da tempo immemore» individua in esse «un ente elettivo, autonomo, amministrativo e legislativo».

Dopodiché ne specifica il campo d’azione: «Lavori pubblici, scuola, industria, commercio, agricoltura, assistenza e igiene». Solo in tal modo, conclude il fondatore del Partito popolare si può «combattere l’invadenza della burocrazia statale». Di convinzioni simili era il leader di “Giustizia e libertà”, Carlo Rosselli, quando scrive nel 1932 su “Quaderni” che è «nell’autonomismo l’asse centrale intorno al quale si sarebbe dovuto costruire il nuovo Stato democratico, dopo la caduta del fascismo».

STABILITÀ DELLA REPUBBLICA
Mentre un’altra figura di primo piano di quel gruppo, Emilio Lussu, si spinge oltre e propone «la regione come l’organismo più adatto, per garantire l’unità politica in forza della storia, della geografia e della lingua».

Non dissimili furono le tesi avanzate in Assemblea Costituente sia dal giurista Piero Calamandrei che dal futuro capo dello Stato Luigi Einaudi. Anche questa volta, però, si preferì percorrere la via della centralizzazione, per il timore di mettere a rischio la stabilità della neonata Repubblica.

Il resto è cronaca degli ultimi anni fra tentativi di realizzare cambiamenti istituzionali in senso autonomista e forti resistenze da parte delle burocrazie politiche nazionali. Ammoniva il meridionalista Guido Dorso che «pur comprendendo le preoccupazioni di chi teme processi disgregativi, sono convinto che non debbono esistere più cervelli che concepiscano l’unità nazionale, sacra ed inviolabile per tutti gli italiani, come mezzo per continuare con lo sgoverno attuale».

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