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Landini si ferma al titolo e arruola pure Camus

Francesco Specchia
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A volte i libri bisognerebbe anche leggerli. I libri si aprono, si sfogliano, dentro sono perfino scritti. Oppure, volendo, si fa come Maurizio Landini il quale, sicuramente perduto nell’affanno del tempo e nella foga citazionista letteraria («i libri? Solo parallelepipedi di parole morte», William S. Burroughs), bé, si è fermato al titolo. L’uomo in rivolta di Albert Camus, roba raffinatissima. Landini l’ha scelto per la parola “rivolta”. “Rivolta” Landini ce l’ha tautata dentro, nell’anima metalmeccanica, in modo indelebile assieme ad altri lemmi immortali come “proprietà privata” o “padroni” o “diseguaglianze”. Ma torniamo a bomba. Immaginate la scena, d’un’asprezza rivoluzionaria. In procinto di entrare a Palazzo Chigi per incontrare la Presidente del Consiglio, il leader Cgil, cupo in volto come Che Guevara a Santa Clara prima lanciava lo sciopero generale del 29 novembre contro la manovra economica del governo al grido di: «Credo che sia arrivato il momento di una rivolta sociale perché avanti così non si può più andare!».

Dopodiché, ribadiva il concetto: «Continuo a pensare che di fronte a quello che sta succedendo c’è bisogno di una rivolta sociale perché è in discussione la libertà delle persone». Rivolta, rivolta. Infine, Landini si lanciava nella mossa mediatica annunciando: «Regalerò al Presidente del Consiglio il libro di Camus L’uomo in rivolta perché, se hanno paura delle parole, è bene che colgano un tema: cioè che di fronte a un livello di ingiustizia e di diseguaglianze come quello che si sta determinando, io credo che ci sia bisogno che le persone non accettino più, non si girino da un’altra parte. C’è bisogno di un cambiamento radicale che parte sia dall’azione politica ma anche dall’azione personale». Ora il problema è che L’uomo in rivolta fu proprio l’opera che rappresentò la disrupture, il vero strappo con il concetto di rivoluzione del collega Jean–Paul Sartre. È l’unico libro il cui il Premio Nobel per la Letteratura esaltava, certo, il concetto di rivolta come reazione dell’individuo contro l’ingiustizia percepita; ma la rivolta si sostanziava nella constatazione che tutte le ideologie totalitarie, sia di destra che di sinistra, siano forme di oppressione a cui ribellarsi. Epperò lo scrittore attaccava soprattutto il marxismo-leninismo e la giustificazione della violenza in nome di un fine superiore. In quella pagine si stagliava la consapevolezza della vera rivolta dell’artista, laddove la rivoluzione dalle piazze rappresentava, appunto, «l’anticamera della restaurazione». Camus, lì, mostrava uno sguardo illuminista. Condannava il nichilismo, e quanto di esso fosse contenuto nelle rivoluzione francese o russa che «spesso confluiscono in nuove forme di violenza e oppressione». Ergo: nessuna barricata in piazza, furore di popolo, cariche ai poliziotti, scioperi selvaggi a mettere in ginocchio lo Stato. Camus, in pratica, nell’Uomo in rivolta rifugge la morale stessa della rivolta; e la rivolta così diventa pacificazione e senso dell’equilibrio, spirito creatore e non ansia distruttrice, coraggio del dialogo e non contrapposizione violenta. Tutto il contrario del pensiero di Landini in queste giornate di furiose colluttazioni sindacali non si capisce bene per che cosa. Fu proprio quel testo, L’uomo in rivolta, anno 1951, che contrassegnò la definitiva rottura tra Camus e Sartre.

Camus non condivideva la vicinanza di Sartre al totalitarismo del bolscevismo (odiava anche il nazifascimo, ovvio) e alle idee sovietiche; e teorizzava una propria condizione della rivoluzione attraverso l’arte come soluzione finale. Roba lontana anni luce da Sartre e dal principio della rivoluzione storica o da quella metafisica, dove l’individuo non esiste mai ma conta la massa. «Io credo nella giustizia, ma prima della giustizia devo difendere mia madre...» scriveva Camus ne Lo straniero. Sosteneva dunque che occorresse ritornare prima alla dimensione umana delle cose; e solo dopo arriva la guerriglia delle ideologia. Solo dopo. Forse. E qua, volendo, ci sarebbe da accendere un dibattito su Gaza, su cui Camus avrebbe oggi parecchio a dire. Secondo i critici che ne cristallizzano il pensiero nella Treccani «da questa posizione Camus giunge alla morale della rivolta, rifiuto di compromessi e di conformismi, che salvi, nella solidarietà umana, nel riscatto dei derelitti, i grandi ideali di libertà e di giustizia, e di verità e di bellezza. La sua è una rivolta dunque non come distruzione, né come rifiuto di tutto, ma come costruzione di vita associata, come creazione libera di un ideale di bellezza». Certo la “dottrina” di Camus, vecchio comunista, talora può mostrare incoerenze, ossimori, contraddizioni; eppure «la realtà della sua arte convince per la purezza classica del suo stile, per la sofferta adesione al dramma della sua generazione, per il coraggioso messaggio di lotta, di fiducia, che esprimono tutte le sue opere». Ora, capisco che per il buon Landini sia un periodo faticoso: la casa editrice della Cgil che brilla d’un bilancio rosso vivo; l’ex destra sociale al governo che fa cose di sinistra; il fragile sostegno di un’opposizione balcanizzata, va bene tutto. Ma travisare Camus è imperdonabile. Tra l’altro, Landini non è l’unico: sempre a sinistra scambiarono le citazioni dei pensieri “solari” di Camus evocate dal ministro Giuli per voci di Evola, ma tant’è: la fretta, il livore, l’eccitazione...

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