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Progressisti in fuga dalla Liguria e dagli Usa

Francesco Damato
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Storditi, distratti e quant’altro dai grandi numeri degli Stati Uniti, anche come popolazione ed elettori complessivi, che scompaiono sostanzialmente nei conteggi dei soli “grandi elettori” chiamati a scegliere formalmente il presidente mandandolo in gennaio alla Casa Bianca, forse non ci siamo accorti delle vere dimensioni della sconfitta dei democratici. Che quel diavolo di Massimo D’Alema, con la mania che ha per la precisione, ha rivelato In altre parole, cioè nel salotto televisivo di Massimo Gramellini, su La7, parlando appunto delle elezioni svoltesi Oltreoceano. E sorprendendo, penso, anche l’illustre e abituale ospite a distanza Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte Costituzionale.

In particolare, l’ex presidente del Consiglio - l’unico ex o post comunista riuscito ad affacciarsi a Palazzo Chigi rimanendovi con due governi, ma per meno di due anni - ha cercato di ridurre il successo di Donald Trump dicendo che in fondo è riuscito a conservare l’elettorato del suo schieramento di quattro anni fa, costatogli allora una sconfitta mai accettata, tanto da sottrarsi allo scambio delle consegne col successore Joe Biden, dopo avere provocato, volente o nolente, un assalto eversivo al Campidoglio. Al tempo stesso tuttavia D’Alema ha impietosamente ammesso, anzi rimproverato agli amici o compagni del Partito Democratico americano di avere perduto in quattro anni la bellezza di dieci milioni di voti. Che sono tanti in effetti, pur nella vastità dell’elettorato americano che purtroppo è difficile conoscere o trovare con una certa precisione navigando in internet, dove l’indicazione è tutta riservata, ripeto, ai 538 “grandi elettori”, non di più, prodotti dai vari Stati per la scelta finale del titolare della Casa Bianca.

 



Col tempo che ha a disposizione ha osservato sarcasticamente lui stesso nelle condizioni di rottamato in cui si trova, per me immeritatamente, nel Pd e più in generale nella sinistra D’Alema si è proposto di studiare i dati elettorali americani per capire bene dove e come si sono spostati gli elettori verso destra. Ma così mi ha ispirato una domanda come spettatore televisivo. Mi sono chiesto se egli avrà anche il tempo e la voglia di meditare sullo spostamento pure degli elettori italiani a destra, che hanno mandato a Palazzo Chigi due anni fa Giorgia Meloni. La quale vi rimarrà per tutta la legislatura, magari confermata nel 2027 con l’elezione diretta a presidente del Consiglio, visto che l’alternativa alla quale lavora la segretaria del Pd Elly Schlein è come l’Araba Fenice. Che ci sia tutti lo dicono, ma dove nessuno lo sa, peraltro in un campo che appena mostra di potersi allargare trova il solito Giuseppe Conte, ma anche altri con lui, pronto a restringerlo, umido di veti e autoreti.

So bene che la Schlein si è consolata, anzi inorgoglita, nella sconfitta elettorale della sinistra nelle recenti elezioni regionali in Liguria vantando i quasi cinque punti guadagnati dal Pd rispetto all’analogo voto precedente di quattro anni fa, salendo ad un 28,5 per cento rispetto al quale il MoVimento 5 Stelle presieduto da Conte, fra i pentimenti e le proteste di Beppe Grillo, è quasi un cespuglio col suo 4,5 per cento. Ma il successo del Pd della Schlein è dovuto a soli 160mila voti in realtà pari o inferiori a quelli precedenti, gonfiati d’aria col quasi 10 per cento in meno degli elettori recatisi alle urne. In realtà, quindi, la sinistra in Liguria, come in tutta Italia, è messa alquanto male, prigioniera della rottura ch’essa stessa ha consumato col suo tradizionale elettorato mangiando quello che la Schlein non ha voluto sentirsi rimproverare di recente dalla Meloni: il caviale. Cioè diventando autoreferenziale, parlando con se stessa in dimensioni sempre minori, piacendo più alle elite che alla povera gente, presente più nei centri ricchi delle città, a traffico limitato, che nelle periferie.

Gliel’ha appena ricordato e rinfacciato anche una sua elettrice nota come Sabrina Ferilli parlandone al Fatto Quotidiano e mandandone in sollucchero il direttore, convinto che a sinistra, fra i cosiddetti progressisti, l’unico a salvarsi sia il suo Giuseppe Conte: l’uomo politico «più sottovalutato nel mondo», pur essendo stato - pensate un po’, sempre secondo Marco Travaglio - il migliore presidente del Consiglio in Italia dopo Camillo Benso conte, al minuscolo, di Cavour. Ed essendosi guadagnato il raddoppio del nome - da Giuseppe a Giuseppi - Oltreoceano ai tempi della prima presidenza di Donald Trump. Che però, tutto sommato, lo aveva conosciuto più nella versione gialloverde, con Matteo Salvini vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno, che in quella giallorossa successiva, spalancantagli in Italia da un Matteo Renzi inedito. E rapidamente pentitosene.

 

 

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