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Giorgia Meloni-Viktor Orban, il retroscena: ecco gli obiettivi dell'asse trumpiano

Fausto Carioti
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L’Europa fa i conti con Donald Trump. Successe già otto anni fa, ma stavolta è diverso: la Ue che attende il secondo mandato del presidente repubblicano è più divisa e malconcia, e più a destra, di quella del 2017. Il destino vuole che il primo vertice dei suoi leader dopo il voto americano avvenga a Budapest, a casa del sovranista Viktor Orbán, presidente di turno della Ue. Il quale è stato appena accusato dall’ambasciatore statunitense in Ungheria di aver trattato le elezioni Usa «come una partita a carte al casinò», puntando tutte le fiches su Trump e «alterando» così i rapporti tra i due Paesi. Resta il fatto che Orbán quella scommessa l’ha vinta, e oggi è trai pochi europei che possono festeggiare per il risultato d’oltreoceano.
Un’altra è Giorgia Meloni.

La testata Politico.eu, sismografo degli equilibri di Bruxelles, riporta il pensiero di «un alleato di alto livello» del presidente francese Emmanuel Macron: «È ovvio che questo è il grande momento per le Meloni e gli Orbán. Noi non abbiamo alcun controllo sulle grandi questioni internazionali in agenda». Un’ammissione onesta di come sono cambiati i rapporti di forza nel vecchio continente, complice anche la crisi del governo tedesco del socialista Olaf Scholz. Ieri la presidente del consiglio ha fatto sapere di aver parlato con «l’amico Elon Musk», dopo aver telefonato a Trump.

 



È convinta che «l’impegno e la visione» del fondatore della Tesla e di SpaceX «potranno rappresentare un’importante risorsa per gli Stati Uniti e per l’Italia, in uno spirito di collaborazione volto ad affrontare le sfide future». Un modo per ricordare a tutti che lei ha un rapporto personale con Musk, e non avrà problemi ad usarlo se potrà tornare utile alla causa. Arrivata a Budapest, la premier ha avuto incontri bilaterali con la presidente della repubblica di Moldova Maia Sandu, che si è appena aggiudicata un secondo mandato sconfiggendo il candidato socialista filorusso, e col primo ministro norvegese, Jonas Gahr Stoere, col quale ha discusso di collaborazione tra i due Stati in materia di energia. Il vertice, infatti, è iniziato ieri nella forma allargata della Comunità politica europea, che comprende, oltre ai 27 Paesi Ue, Moldova, Norvegia e altri diciotto Stati, tra cui Regno Unito, Albania ed Ucraina. È previsto che la premier italiana parli stamattina. Anche se appartengono a due famiglie europee diverse (lui a quella dei Patrioti, dove c’è anche la Lega, lei è la leader dei Conservatori), Orbán e Meloni quasi sempre fanno squadra. Ieri il capo del governo ungherese è intervenuto sull’immigrazione irregolare, mettendo sul tavolo una nuova questione politica: quella del rapporto con la Corte di giustizia Ue.

«Non credo che potremo fermare la migrazione», ha detto, «se non ci ribelliamo alle decisioni giudiziarie e ai regolamenti attualmente in vigore». Come esempio di ciò che non va, ha citato proprio quello che sta avvenendo in Italia, dove i giudici si rifiutano di applicare i decreti del governo sventolando la giurisprudenza Ue: «È la stessa situazione, i governi prendono decisioni, poi a livello europeo una corte decide negativamente». Il padrone di casa, in grande spolvero, ha raccontato di aver brindato alla vittoria di Trump «con la vodka», perché era in Kirghizistan e lì è così che si fa, ha avuto un incontro con Mario Draghi, «per discutere di questioni relative alla competitività della Ue», e ha detto che il prestito da 50 miliardi di dollari per l’Ucraina «è una questione aperta, soprattutto dopo le elezioni americane».

La posizione di Volodymir Zelensky, pure lui a Budapest, non è comunque cambiata: «Abbiamo bisogno di armi», ha detto agli altri leader, «non di sostegno nei colloqui. Gli abbracci con Putin non aiuteranno». Orbán ha anche spiegato cosa ci si dovrà aspettare da Trump in materia di dazi: «La questione del commercio verrà fuori e non sarà facile» e i leader europei dovranno stare «molto attenti», perché dall’altra parte del tavolo ci sarà «un negoziatore duro», «il maestro delle trattative». Quanto a Macron, già indebolito dalle elezioni francesi, sta cercando di adattarsi alla nuova situazione. È stato uno dei primi a telefonare a Trump per congratularsi della vittoria e ieri è tornato su un tema tradizionale suo e della Francia: la necessità, per l’Europa, di fare da sola e smarcarsi dalla tutela degli Stati Uniti. «Dobbiamo scrivere noi la Storia, abbiamo sistemi di difesa sofisticati, abbiamo sistemi tecnologici», ha detto rivolto agli altri leader. Per poi lanciarsi in una metafora zoologica: «Il mondo è fatto di erbivori e carnivori. Se decidiamo di restare erbivori, allora i carnivori vinceranno e saremo un mercato per loro. Penso che, come minimo, dovremmo scegliere di diventare onnivori».

A Trump l’idea di un’Europa più autonoma, al punto da pagare da sé per la propria difesa anziché gravare sulla spesa militare dell’alleato a stelle e strisce, non spiace. C’è però un precedente, tra lui e il presidente francese, proprio su questo argomento. Nel 2019 Macron definì la Nato un’organizzazione «in stato di morte cerebrale» e Trump bollò queste parole come «molto brutte e irrispettose», aggiungendo che «nessuno ha bisogno della Nato più della Francia». Tra i due non c’è mai stata alchimia e il loro rapporto politico dovrà essere ricostruito. Al contrario di quello che unisce Trump a Meloni e Orbán, due che in Europa - guarda caso - non hanno mai legato con Macron.

 

 

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