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Paragone: pur di affossare Conte, Grillo è diventato come quei personaggi che sfotteva a teatro

Conte e Grillo

Gianluigi Paragone
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Se fosse capitato a un altro, Beppe ci avrebbe costruito un bel pezzo dei suoi, uno di quelli carichi di invettive, di sdegno: un contratto da 300 mila euro per una consulenza; soldi che profumano di politica, di palazzo, di casta. E poi ci avrebbe messo il carico del comico: 300 mila euro all’anno per prenderli per il c..o, per parlarne male. «Robe da pazzi», avrebbe ridacchiato a mo’ di sfottò. Sarebbe stato un bel pezzo di comizio-show.

Se non fosse che quel contratto è il suo, che quei 300 mila euro all’anno odoranti di Palazzo finiscono nelle sue tasche. Anzi, finivano perché ora Giuseppe Conte non ha più voglia di farsi prendere per i fondelli: «Che pretendeva, un vitalizio?». Cosi come si fa con il collaboratore più lontano dal giro che conta, lascerà scadere l’accordo con tanti saluti. O almeno così sperano l’ex premier e i suoi più stretti collaboratori. Perché Beppe Grillo si sta rileggendo tutte quelle carte processuali maturate quando era lui a cacciare i ribelli: simboli, denominazioni, agibilità politica tra meet up e prime avventure elettorali.

«Chi è ‘sto Borrè???», tuonava Grillo quando qualcuno osava mettere in discussione quel che lui e Casaleggio decidevano in via Gerolamo Morone. Lorenzo Borrè era il difensore dei tanti ribelli o espulsi, è colui che ha fatto vedere i sorci verdi ai vertici del Movimento navigando tra statuti vecchi e nuovi, tra associazioni fatte e rifatte, tra simboli toccati e ritoccati. Quanto lo ha odiato, Beppe, «quel Borrè». Eppure ora gli torna utile per muovere la sua personale guerra contro «Peppinello» per «fargliela pagare». «Borrè è l’unico che può dare filo da torcere a Conte», dicono i grillini doc.

Vero. E infatti quelle sue carte processuali torneranno utili per una battaglia che normalizzerà definitivamente l’ultimo brandello di rivoluzione grillina: Grillo e Conte come Cossutta e Bertinotti, Comunisti italiani contro Rifondazione comunista; come Casini e Martinazzoli, CCD contro Popolari; e potremmo andare avanti a lungo con scissioni più o meno fortunate. Sfigatissima per esempio fu quella tentata in casa Cinquestelle da Luigi Di Maio in formato draghiano.

Non so come finirà la sfida giudiziaria. So che quella politica metterà fuori pista Beppe perché se di quel Movimento non resta più nulla la colpa è stata principalmente sua: sua quando decise l’alleanza con il Pd dopo la rottura con la Lega (col pieno appoggio di Conte), sua quando decise di battezzare Draghi come “grillino” pur di non restare escluso dalla grande ammucchiata (e qui invece Conte non lo appoggiò). Grillo per anni ha fatto e disfatto: «Il Movimento sono io», diceva tra il serio e il comicamente imperiale. Nella presunzione di restare sempre il Garante e l’Elevato, accettò persino quel “pacchetto” che gli rifilò Conte, avvocato abituato a infilare la parola più redditizia al momento del redde rationem. Eppure se Conte vincerà la sua personalissima sfida come nuovo costituente del Movimento (a chi vuole dare a bere che stanno decidendo tutto gli iscritti...), perderà quella politica se non riuscirà a trovare la corsia giusta nel campo progressista schiacciato tra Pd e i Verdi Centrosociali di Fratoianni, Bonelli e Salis.

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