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Sinistra, lo sfregio: perché non festeggiano i 70 anni di Trieste italiana

Pietro Senaldi
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Nulla è cambiato dai tempi dei comunisti di Palmiro Togliatti, che volevano lasciare Trieste preda della Jugoslavia del macellaio Tito. Il dittatore dal pugno chiuso aveva appiccicato al suo regime l’etichetta del socialismo reale e i compagni di casa nostra hanno cercato in tutti i modi di regalargli qualche centinaia di migliaia di italiani giuliani, convinti che sotto il giogo di falce e martello si stesse meglio. Alcuni sventurati ci credettero e varcarono il confine, dalla libertà alla schiavitù. Furono internati e costretti a lavorare fino allo sfinimento; perché, anche se comunisti, erano pur sempre italiani, colpa da espiare con la vita al tribunale titino.
Ieri, giorno in cui il capoluogo giuliano celebrava il settantesimo anniversario del suo secondo ritorno alla madrepatria, il 25 ottobre 1954, in piazza Unità d’Italia («la più bella della nostra nazione», l’ha definita il presidente del Senato, Ignazio La Russa), gli eredi politici del Pci non c’erano. Con la seconda carica dello Stato c’erano il ministro per i Rapporto con il Parlamento, il friulano Luca Ciriani, e molti esponenti regionali della destra.

Giorgia Meloni ha mandato un messaggio, pubblicato sul Piccolo, parlando di «una lunga storia d’amore e sofferenze tra l’Italia e Trieste, la più italiana e la più mittelereuropea delle nostre città, che ci consente oggi di giocare un ruolo da protagonisti nei confronti dei Balcani».

 

 

 

ASSENTI INGIUSTIFICATI
Assente, ingiustificata, la sinistra. Si è visto solo l’ex senatore dem, ora consigliere regionale, Francesco Russo, ma perché probabilmente tra due anni sarà lui il candidato sindaco dell’opposizione alle Comunali. Si è fatta viva sul tardi, per scongiurare una gaffe, l’ex presidente della Regione, Debora Serracchiani, ricordando «un giorno di libertà e un’emozione mai spenta». Ma è parsa più una risposta in corsa al rimprovero di La Russa, che mentre confessava di «essere commosso, perché io ero un bambino, ma quel giorno del ’54 lo ricordo bene» ha accusato la sinistra di aver tradito per l’ennesima volta la città.

D’altronde, da una parte ci sono il sentimento del presidente del Senato e l’impegno di Meloni, che «all’anima di Trieste che chiede prospettive orgoglio e futuro» promette di «sostenere queste ambizioni». Dall’altra c’è il Pd cittadino, il quale non trova di meglio che scrivere al prefetto perché «si ponga estrema attenzione a eventi di stampo filonazista durante le celebrazioni». A cosa allude? A un concerto e a un corteo, pacifici, ritenuti «inaccettabili» perché parlano di redenzione italiana.

E così, la sinstra oggi rende quanto mai attuali storie di ottanta e settant’anni fa, perché è durata due lustri la sorte sospesa del territorio giuliano. I nipotini dei comunisti sono incapaci di liberarsi dell’odio che i nonni provavano per chi rivoleva Trieste italana. Il ritorno della città alla patria è vissuto dai dem oggi con un imbarazzo che non riescono a celare, patito come una sconfitta e non celebrato come una liberazione. Non si può dire infatti, come sostenne a lungo il Pci, che nel 1945 le truppe titine liberarono Trieste. Ci sono ventimila italiani infoibati e almeno altre diecimila vittime della violenza etnica comunista a testimoniare che non fu liberazione.

 

 

 

MATTANZA TITINA
Tito cacciò i nazisti, e nella tragedia cambiarono solo la faccia e la lingua degli aguzzini. Il 30 aprile 1945 il Comitato di Liberazione Nazionale, del quale era presidente un prete, don Edoardo Marzari, proclamò l’insurrezione gnerale, mentre le brigate jugoslave attaccarono dal Carso ed entrarono in città il 2 maggio. Alle forze alleate, che arrivarono dopo, i titini riuscirono a presentarsi come i soli liberatori e in Piazza Unità d’Italia le bandiera jugoslava, con la stella rossa al centro, e comunista, con falce e martello, restarono esposte accanto a quella italiana.

Coprifuoco, divieti, stato di polizia, rappresaglie: Trieste fu come oltre cortina: in quaranta giorni diecimila morti fino a quando il territorio giuliano fu diviso, un po’ come Berlino: settore A, amministrato dal governo militare degli Alleati, settore B sotto il tacco del dittatore. La situazione si chiarì solo sette anni dopo, il 25 ottobre 1954, data di cui ieri a Trieste si è celebrato il settantesimo anniversario, con il passaggio della zona A all’Italia. Tutti i triestini festeggiarono, ma peri comunisti italiani fu un giorno da dimenticare. E non è un caso quindi se il Pd oggi cerca ancora di cancellarlo, fino al tentativo grottesco di far passare una manifestazone che ha visto la piazza piena di triestini festanti, alcuni dei quali reduci del glorioso 25 ottobre 1954, come una adunata sediziosa di fascisti.

 

 

 

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