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Per Carlo Rovelli ogni colpa è dell'Occidente cattivo

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Giovanni Sallusti
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Va letto e riletto, l’intervento alla Buchmesse che ha ripostato sulla sua pagina Facebook Carlo Rovelli, fisico, italiano, europeo, occidentale. E no, gli ultimi tre aggettivi non sono pleonastici. Perché il discorso con cui lo scienziato-divulgatore ha inaugurato la Fiera del Libro di Francoforte costituisce un capolavoro di “oicofobia”. Ovvero di quella malattia dello spirito che secondo il filosofo Sir Roger Scruton caratterizzava le élite intellettuali occidentali: «Il ripudio dell’eredità e della casa». La vergogna di appartenere all’Occidente, l’odio di sé. Che nel discorso di Rovelli assume una delle sue forme classiche: quella (falsamente) tranquillizzante, quella in cui la damnatio per la nostra civiltà è imbellettata di buone intenzioni ireniste, multiculturali, sincretiste, ostentate in nome della comune “tribù” umana, come da titolo della perorazione. La quale contiene una buona serie di strafalcioni, e tutti a sfavore di quello che un altro filosofo, Pascal Bruckner, chiama “il colpevole quasi perfetto”: l’uomo bianco occidentale.

Anzitutto, quando Rovelli definisce il libro come “il luogo dove si presentano le idee” dovrebbe sapere che, a rigore, questo bizzarro oggetto della storia umana che sono le “idee” è un oggetto prettamente occidentale, reso possibile solo da quel salto dell’astrazione tipicamente greco (gli consigliamo su questo la lettura de La crisi delle scienze europee di Edmund Husserl). Senza quel salto, pensi egregio Rovelli, non avremmo conosciuto nemmeno altri trascurabili manufatti occidentali come il diritto o la stessa scienza. E sì, sono manufatti che l’Occidente ha diffuso nel mondo, ci prendiamo la responsabilità di dire: migliorandolo. Invece, lei scrive che «noi, idioti esseri umani, sprechiamo una quantità colossale di risorse per costruire armi e usarle, generando immenso dolore per milioni, oggi, proprio ora, in Europa Orientale, Medio Oriente, Africa, e in molti altri luoghi a venire». È evidente che per lei il vettore della colpa ha sempre e solo una direzione: da noi, biechi esportatori di “dolore”, al resto del mondo, Eden guastato dalla nostra iniziativa infetta.


Ecco, visto che non capiamo nulla di microparticelle, ma coltiviamo il modesto vizio di bazzicare la cronaca, vorremmo farle notare che viceversa i “generatori di immenso dolore” oggi stanno proprio dove lei non li vede: «in Europa Orientale, Medio Oriente, Africa». C’è la Russia tardosovietica di Putin, che da due anni stermina civili ucrinai negli ospedali, nelle scuole, nei parchi giochi. Ci sono le varie bande di tagliagole nazi-islamici, dai macellai di Hamas che hanno riesumato l’orrore antisemita del pogrom ai terroristi di Hezbollah che martoriano israeliani e libanesi, tutti manovrati dai tagliagole in capo, gli ayatollah totalitari di Teheran, che a casa loro impiccano gli omosessuali e sfracellano la testa alle donne senza velo. In Africa ci sono gruppi come Boko Haram, che danno la caccia ai cristiani, o a tutti i non credenti in Allah, villaggio per villaggio. E poi, magari ricordiamolo egregio professore, c’è la Cina comunista, che quando a “dolore” sparso non è indietro, visto che tiene attivi centinaia di laogai, a tutti gli effetti campi dì concentramento per gli sgraditi al Partito (Unico). Niente, lei non si scosta dalla sua ossessione oicofoba: «Invece di cercare punti di equilibrio, consumiamo le nostre energie cercando di sopraffarci a vicenda, per rendere il nostro gruppo, il nostro gruppo di Paesi, più dominante, più potente». No, non è «il nostro gruppo di Paesi» ad esercitare oggi l’imperialismo aggressivo. Di nuovo, guardi ai carri armati russi che sventrano una nazione sovrana, guardi a quel che fa il Dragone cinese in Africa, rispetto a cui il colonialismo occidentale pare una scampagnata benevola.

«Vogliamo schiacciare i nemici percepiti», dice lei? Beh, se sono macellai come Yahya Sinwar, la mente di quel 7 Ottobre in cui sono stati sgozzati bambini nelle culle perché ebrei, sì, assolutamente sì, vogliamo schiacciarli, e sia benedetto Israele che lo ha fatto. Siamo «ciechi al fatto che coloro che chiamiamo nostri nemici sono proprio gli amici con cui dovremmo lavorare al bene comune»? Ancora no, caro Rovelli, le confesso che io non voglio intrattenere alcuna “amicizia” con quel signore col turbante, Ali Khamenei, che auspica un nuovo Olocausto. Né con quell’altro tizio, il paffuto dittatore nordcoreano, che si alza la mattina giocando all’apocalisse nucleare, e rispetto a cui l’unica strategia di contenimento possibile è la deterrenza granitica, lo squilibrio di forze. Per cui è vero il contrario di quel che lei dice, occorre proprio «costruire fuoriosamente nuovi missili nucleari in gran numero», di modo che i tiranni e le varie canaglie globali non si azzardino ad utilizzare i loro. Perché, di nuovo, ha torto caro Rovelli: noi «siamo diversi, abbiamo valori diversi». Altrimenti non si spiega perché non invochi il burqa per le sue assistenti, o non pretenda (si spera) di spedire in un gulag artico chi la pensa diversamente da lei. Su, caro Rovelli, guarisca, torni ad apprezzare la sua “casa” culturale, da cui peraltro si guarda bene dal fuggire. Perché va bene l’oicofobia, ma alla fine prevale sempre l’istinto di conservazione.

 

 

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