Sergio Ramelli, a sinistra c'è ancora chi lo infanga
Il ricordo di Sergio Ramelli va ben oltre le commemorazioni ufficiali, ben oltre i riti che la destra radicale riserva ai caduti degli anni Settanta. In realtà il suo assassinio interroga le coscienze di un’Italia troppo distratta e incline a rimuovere le pagine più scomode della sua storia. Aggredito la mattina del 13 marzo del 1975 a colpi di chiave inglese, sotto casa, da esponenti di Avanguardia Operaia, morì il 29 di aprile dopo una straziante agonia. Ramelli, 18 anni, non era un facinoroso, un picchiatore. Era un missino che aveva scritto un tema contro le Br. E mentre sta per uscire un testo di Nicola Rao su quegli anni e sull’omicidio di Sergio – Il tempo delle chiavi. L’omicidio Ramelli e la stagione dell’intolleranza, Piemme - fa impressione che ancora su qualche muro ci si possa imbattere nella scritta «Tutti i fasci come Ramelli con una riga rossa tra i capelli». C’è una parte della sinistra che non accetta di fare autocritica su quegli anni e su quella violenza, c’è una parte della sinistra che rivendica la stagione degli “eskimi in redazione” e che di quegli eskimi che seminavano odio con articoli sulle trame nere e sui fascisti da uccidere vorrebbero emulare le gesta.
Un esempio valga per tutti: quattro anni fa Valter Veltroni dedicò all’omicidio Ramelli una pagina intera sul Corriere, non esente da accenti di genuina pietas. «Sergio» - scriveva Veltroni – non si distingue «da tutti gli altri giovani» ma ha idee di destra e non le nasconde. Non è, racconta chi lo ha conosciuto, un fanatico. Da poco ha aderito al Fronte della Gioventù. Ma è capitato in una scuola dove le sue idee non sono tollerate. Tutto comincia con un compito in classe. E Sergio scrive un tema sul primo assassinio delle Brigate Rosse, quello compiuto a Padova nel 1974, in cui dei terroristi erano entrati in una sede del Msi e avevano ucciso a freddo Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola. Quel tema fu l’inizio della sua fine». Christian Raimo si inalberò per l’articolo di Veltroni e definì Ramelli «l’icona del peggior neofascismo». Cinque anni prima L’Espresso aveva tentato di dipingere Ramelli come un amico dei terroristi neri. Insomma uno che se l’era cercata.
Gli assassini di Ramelli furono individuati dieci anni dopo, grazie ai magistrati Guido Salvini e Maurizio Grigo, che si scontrarono però con l’omertà di «certi ambienti della borghesia milanese» preoccupata che si volesse processare il Sessantotto. «I ragazzi, diventati grandi, erano professionisti, qualcuno aveva figli. Crollarono subito e confessarono. Ci colpì – raccontò Salvini - che non fosse un gruppo terroristico, ma un servizio d’ordine della facoltà di medicina, i cui membri non potevano non sa pere cosa significhi colpire alla testa un ragazzo con una chiave inglese da due chili. Loro non lo conoscevano, Ramelli. Agirono sulla base di una foto che gli fu fornita dal comitato interno al Molinari». Sergio Ramelli è ormai diventato un simbolo. Da onorare per i “camerati” che sono venuti dopo. Da infangare per i “compagni” che sono rimasti fermi agli anni Settanta. Dovrebbe appartenere alla memoria collettiva dell’Italia ma contro questo esito si lavora con l’operazione più subdola e manichea: quella di considerare il suo omicidio un “danno collaterale” di annidi sangue, in cui faceva parte delle pratiche “rivoluzionarie” aspettare sotto casa un fascista e ammazzarlo di botte. Una tesi emersa anche in un recente romanzetto su Acca Larenzia apprezzato nell’ambiente dei centri sociali: quei morti missini? E che ci vuoi fare, poteva capitare. Di più: lo scandalo non sono quei morti ma i saluti romani che ne accompagnano il ricordo. E non si creda che siano solo i più fanatici ad accodarsi a questa esegesi giustificazionista o ad oltraggiare quei ragazzi uccisi evitando di nominarli per concentrarsi sui riti del Presente! No. Anche un apprezzato scrittore come Antonio Scurati se la prese, due anni fa, in un editoriale su Repubblica, con Giorgia Meloni che aveva partecipato alla commemorazione ufficiale di Ramelli a Milano. Perché quel ricordo sarebbe stato una sorta di “anti-25 aprile”. Quanto al sindaco Beppe Sala, che scelse di partecipare all’omaggio a un diciottenne ucciso, peccò, secondo Scurati, di «eccesso di perbenismo democratico».