Il complottismo è malattia di sinistra
Dinanzi ai commenti della premier sulle ultime novità legate all’affaire spioni e dossier, i soliti commentatori hanno pensato bene di risfoderare l’accusa consueta: Meloni evoca complotti, Meloni fa la vittima. Ma, più che altro, Meloni ripete per la terza volta, l’ennesima, che lei non è ricattabile e che non le troveranno scheletri negli armadi. «I gruppi di pressione non accettano di avere al governo qualcuno che pressioni non se ne fa fare e non si fa ricattare. E allora, magari tentano di toglierselo di torno con altri strumenti. Non ci riusciranno».
Atteggiamento che è tutt’altro che vittimistico, semmai assertivo, rassicurante, e centrato sull’opposizione tra trasparenza da un lato e “manine e manone” che si agitano dietro le quinte dall’altro.
Sarà il caso tuttavia di analizzare meglio i concetti di complottismo e vittimismo che le destre e in particolare Giorgia Meloni userebbero nella comunicazione e nella propaganda. Innanzitutto l’accusa si può facilmente ribaltare e rispedire al mittente: non è forse la sinistra che evoca il grande complotto di piduisti, servizi deviati e manovalanza fascista per spiegare la storia d’Italia del secondo dopoguerra? E non è sempre la sinistra a fare la vittima puntando l’indice contro lo spoil system operato dalla destra e contro i meloniani che starebbero “occupando” la tv pubblica?
I correntisti spiati a Bari vogliono un risarcimento dalla banca
Ancora, è sempre da sinistra che arriva il piagnisteo su ogni provvedimento del governo che aprirebbe la strada alla deriva autoritaria, repressiva, liberticida. Lasciamo da parte dunque il vittimismo per concentrarci sul complottismo. Che poi è un tratto tipico delle società post-moderne dove l’overdose di informazioni crea disinformazione, che sia consapevole o voluta poco importa. Ma la destra che c’entra? La destra soffre semmai di quello che il politologo Marco Tarchi ha giustamente definito il “complesso di Mosé”: «Un popolo che si pensava destinato al perpetuo esilio dall’Italia ufficiale improvvisamente portato nell’area della legittimità» è destinato a non fidarsi di nessuno, a considerare tutto il mondo circostante se non nemico quantomeno estraneo.
Di più: la leader di questo popolo vuole dimostrare che le carte le dà lei e che nessuno può condizionarne le scelte. Alla fine degli anni Ottanta del Novecento Piero Ignazi pubblicava il primo studio scientifico sul Msi e lo titolava Il polo escluso. Definizione che ci riporta al tarchiano “complesso di Mosé”: gli emarginati e reietti che diventano vincenti e che restano tuttavia guardinghi e diffidenti. Il complottismo è un’altra cosa. Pur se subiamo le suggestioni di Umberto Eco che nel suo romanzo Il Pendolo di Foucault attribuiva il complottismo alla destra esoterica, possiamo oggi tranquillamente ritenere che quella tendenza è ampiamente superata nelle file di Fratelli d’Italia.
La destra attuale, rivolgendosi al pensiero conservatore quando non ad autori controrivoluzionari come Burke e De Maistre, tende a valutare i contesti storici in un’ottica di realismo al contrario di una sinistra sempre tentata dall’utopia. Il complottista è un dogmatico, è contro il passato perché in esso vede innervarsi sempre lo stesso schema dei poteri occulti che tramano per il loro profitto, i nemici di classe, capitalisti borghesi, imperialisti ecc. ecc. Una mentalità antistorica che non ha radici nella cultura di destra. E anche se si fa riferimento agli autori legati all’archetipo della Tradizione – Evola e Guénon ad esempio, lasciamo il conte Kalergi alle birrerie padane – in essi non si ravvisa il complottismo ma piuttosto la volontà di leggere la storia come regressione anziché come progresso.
Una svalutazione del passato è rintracciabile invece nelle culture progressiste. Infatti la sinistra odierna volentieri evoca il ritorno dello spettro del fascismo dimostrando di non avere compreso la lezione di Marx: la storia si ripete come farsa. Ma soprattutto la sinistra, col suo continuo balbettìo contro la destra predatrice di poltrone, dovrebbe rileggere gli antichi maestri e uscire dall’ipocrisia. Recuperando magari la franchezza di Lev Trockij: «Ma cos’è un partito? È un gruppo di persone che vuole mettere le mani sul potere per attuare il proprio programma. Un partito che non ambisce al potere è indegno di chiamarsi partito». Viva la sincerità. A destra come a sinistra.
"Ecco perché il bancario spione controllava pure i morti", Paolo Mieli non usa giri di parole