Semplice o colto, se non è "dei loro" il ministro non va mai bene
Prima erano gli sfottò, l’ironia, il sarcasmo a proposito di città invertite, date sbagliate, teorie non ortodosse. Si sprecavano i post, i meme, i tweet. Ma come, dicevano nei salotti bene, questa persona non può occupare questo posto, ha poca cultura e comunque settaria, non ha i nostri stessi riferimenti, non legge – e lo dice pure- i libri dello Strega che se a quindici mesi di distanza provo a chiedere quali fossero in concorso non se lo ricordano più neanche loro. Ora siamo all’opposto, i toni aulici, i voli pindarici, le costruzioni perifrastiche, l’abbondante uso di metafore, i concetti non esattamente alla portata, qualche periodo da decrittare (ops, capiranno cosa significa decrittare?) sono inadeguati, troppo distanti dal linguaggio semplificato dei social e dei proclami, insomma una gigantesca supercazzola, ciò che ricordano di Amici miei, la battuta del conte Mascetti come pars pro toto, mica si soffermano sull’amarezza tragica del film, sulla malinconia del tempo che passa. Povero Monicelli, e povero Pietro Germi che scrisse la sceneggiatura, ridotto a “come se fosse antani”. Da oggi a sinistra si sono scoperti semplificatori, roba da pazzi.
«Ti sognava laureata, era fiero di sua figlia, se solo immaginasse la vergogna», cantava Francesco Guccini in Piccola storia ignobile. E che vergogna, un ministro senza laurea non può fare il ministro, soprattutto della cultura. E allora com’è che parla difficile? Cosa ci vuole dimostrare? Da quando in qua, che la destra è rozza per definizione, mica come noi che conosciamo a memoria la bibliografia di quei bravi scrittori che non andranno a Francoforte. Mica come noi che avevamo un ministro romanziere, appena uscito con un altro romanzo, una «bellissima storia di lotta, di antifascismo, di amore e di diversità» (cit. Viola Ardone), con la precisazione che un maschio ultrasessantenne quando descrive il lesbismo ha come modello You Porn e non Gertrude Stein, «sorretto da una scrittura che affianca ai toni avvolgenti del realismo magico quelli precisi del racconto storico, questo romanzo corale, pieno di vitalismo e di personaggi indimenticabili, trascina i lettori, consegnandoci una storia a cui apparteniamo ancora», proprio così. Se il suo successore al dicastero affermò candidamente, «proverò a leggerli», io chioso, «ma neanche per sogno». La morale di questo piccolo commento rischia la banalità. A loro, comunque, non va bene.
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Se sei troppo immediato e se sei troppo colto, qualsiasi autore citi, qualsiasi riferimento fai è sbagliato, ti inchiodano con la loro prosopopea, la supponenza, la certezza di un diritto acquisito, di cultura parliamo noi, soltanto noi, vi seccheremo comunque, vi coglieremo in fallo, nel meno e nel più. Ogni tanto mi interrogo sul da farsi: come dovremmo parlare perché vada bene anche a loro? Quale stile adottare? Comunicato sindacale, femminile estensivo, scambio di mail e whattsapp per essere realisti? Di cosa disquisire per ottenere il diritto di cittadinanza nel loro prestigioso empireo culturale? Ci volete semplicioni o saccenti? Umili o superbi? Limitare il vocabolario a 300 parole oppure prenderci la libertà di usare termini più complessi e qualche arcaismo a effetto?