Consulta, l'eterno mercato della politica intorno alle nomine
Non mi sto inventando nulla. Non mi sto arrampicando su nessuno specchio. Non vi propongo l’ennesimo retroscena delle nostre abbondanti cronache politiche. Mi limito a seguire le tracce generosamente fornite, in un provvidenziale abbandono alla franchezza, dal capogruppo del Pd al Senato Francesco Boccia per spiegarvi il mercato - tutto politico, per carità, ma sempre mercato - che si sta allestendo per il rinnovo quasi totale di una delle componenti della Corte Costituzionale: quella di elezione parlamentare. Sono cinque giudici su quindici, quanti ne nomina il presidente della Repubblica o provengono, come dice l’articolo 135 della Costituzione, dalle “supreme magistrature ordinaria ed amministrative”. Dei cinque giudici di elezione parlamentare, uno - la ex presidente della stessa Corte Silvana Sciarra - è scaduto quasi un anno fa. Altri tre scadranno a dicembre, fra i quali l’attuale presidente Augusto Barbera. Un pacchetto di quattro giudici da eleggere insieme è una tentazione irresistibile per una politica da tempo abituata a scambiare, volente o nolente, consapevole o non, il pluralismo per lottizzazione. Magari sarà stato anche per questo che le opposizioni, mobilitatesi solo quando la premier Giorgia Meloni ha tentato di non fare fallire anche la ottava votazione per l’assegnazione del seggio che fu della Sciarra, hanno lasciato trascorrere quasi un anno senza preoccuparsi del vuoto alla Consulta.
Intervistato dal Corriere della Sera sull’appena rimancata elezione di un giudice e sugli altri tre che stanno per scadere, il capogruppo del Pd al Senato ha testualmente risposto: «Abbiamo due mesi di tempo per trovare un accordo su tutti e quattro». Il plurale mette insieme maggioranza e opposizioni. «Noi - ha aggiunto Boccia, non so se parlando solo a nome del suo partito o anche degli altri più o meno aspiranti al fantomatico campo largo dell’alternativa al governo- diamo la massima disponibilità a trovare una soluzione. Le scelte più importanti si risolvono con la politica, non con i muscoli dei numeri. Speriamo che Giorgia Meloni lo capisca. La Consulta può fare a meno di un giudice per qualche settimana ma di quattro, evidentemente, è impossibile».
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Quando e se i giudici mancanti diventeranno quattro sui cinque di elezione parlamentare e sui 25 complessivi della Corte concepita dai costituenti nel 1947 e creata nel 1955 per diventare operativa l’anno dopo ancora, il Parlamento potrà correre anche con Mattarella, come accadde a suo tempo in analoghe circostanze con Francesco Cossiga al Quirinale, il rischio di finire sotto minaccia di scioglimento per inadempienza costituzionale. Tutti insomma dovranno, con le buone o le cattive, accedere al già ricordato mercato - ripeto, tutto politico - della Corte e distribuirsi i seggi con la maggioranza qualificata necessaria per venirne a capo. Se questo spettacolo, scenario o com’altro lo si voglia o lo si debba chiamare vi sembra all’altezza della moralità che si reclama dalla politica, non so. A me non tanto, considerando anche l’articolo 54 della Costituzione tanto abusato nel dibattito politico, ai confini di quello giudiziario. Che dice: «I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge».
I parlamentari, in verità, i partiti che sono alle loro spalle e i rispettivi vertici non giurano. Ma non per questo, credo, possano o debbano sentirsi autorizzati a soprassedere sia alla disciplina sia all’onore. E a giocare invece, nel caso di cui stiamo parlando, quello cioè dell’elezione dei giudici costituzionali, con i candidati, reali o potenziali, coperti o scoperti, furbescamente protetti o no dalle schede bianche, come con i birilli, usando come elastici i cosiddetti conflitti d’interesse. Come quello contestato al consigliere giuridico della premier per la presunta paternità del disegno di legge ancora all’esame delle Camere sull’elezione diretta del presidente del Consiglio, gestito in realtà dalla ministra delle riforme, ed ex presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati. E pensare che nel non lontanissimo 1991 vi fu un ministro della Giustizia ripeto, della Giustizia- nominato giudice costituzionale dall’allora presidente della Repubblica. I nomi non contano, bastando e avanzando il fatto per rimettere i piedi a terra.
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