Franceschini, il tragico romanzo fascio-arcobaleno è pieno di luoghi comuni
«Quando qualcosa non torna, guardate sempre dov’è Franceschini...», quando Matteo Renzi, in procinto di essere piallato dal Pd, incastonò questa frase nella storia (qualcuno, col senno di poi, la vide come un’introiezione), Dario Franceschini stava probabilmente vergando l’ennesima fatica letteraria. Dario Franceschini è l’unico politico di scuola democristiana che, a seconda dello stato animo, non fonda correnti di partito ma scrive romanzi. Non ho mai capito se questo sia un bene o un male.
L’ultimo romanzo che ho letto a sua firma, Daccapo, narrava una storia di erotismo abbondante incentrato su un notaio che scopre di avere 52 fratelli illegittimi. C’era molta carnalità ostentata, Franceschini era carnalmente al potere nel Pd. Nel 2018, l’uomo vergò Impresa e cultura, presentato come un saggio lievemente autoriferito e allestito mentre stava strutturando l’Ales, la discussa società di servizi che divenne un ministero nel suo ministero della Cultura. Oggi Franceschini esce in libreria con Aqua e tera (La Nave di Teseo, pp. 160, euro 16), altro romanzo che, in un impeto fascio-arcobaleno, risucchia parte dei luoghi comuni del Pd schleiniano e occhieggia ad una riconciliazione con un elettorato – quello di Elly, appunto, mica il suo - che è sempre meno democristiano e sempre più comunista. La sinossi e – quasi tuttala critica parla di «racconto fra realismo magico e storia» che si sgrana sulla liaison amorosa tra due donne nella Ferrara fascista.
Sullo sfondo scorrono le imprese di Italo Balbo e l’ascesa del conterraneo Mussolini, le leghe dei braccianti socialisti e gli squadristi neri, le matriarche e i patriarchi, le arringhe del Duce e le prospettiva un po’ metafisiche di un De Chirico o di un Savinio. S’erge pure, issato tra le pagine, Giorgio Bassani di cui Dario – a detta dei suoi molti estimatori – si sente inesorabilmente l’erede. Non foss’altro per essere compaesani.
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LE RADICI
Tutto s’accavalla, nel romanzo. Finché Franceschini, dopo avere sfruculiato le famiglie altrui, finisce – guarda un po’- per incrociare ineludibilmente la sua, di famiglia. A partire dal luogo dove si svolge buona parte della vicenda, cioè la grande abitazione di corso Giovecca 168 dove «è cresciuto insieme ai genitori Giorgio e Gardenia». E fin qui, la cornice. Ma è il quadro dentro la cornice è tutt’altro.
Il romanzo affonda nei topoi letterari (più che altro luoghi comunissimi) che si giustappongono ai temi propri della Schlein, la donna che l’ha isolato ai margini del partito. Gli argomenti scavati da Dario sono furbi e spudorati. Vado random. Dario invoca il fascismo, che di questi tempi tira moltissimo, con passaggi di devastazione: «La provincia fu devastata dallo squadrismo fascista. Ogni giorno i camion partivano dalla città e andavano a colpire nei paesi, fino alle località più piccole. Il copione era sempre lo stesso, la devastazione delle case del popolo o degli spacci cooperativi, le bastonature dei capilega».
Poi fa spuntare, nelle pagine, perfino Giacomo Matteotti nell’eterno centenario della morte: «Quando servirono lo storione di Po, la specialità del locale, Matteotti disse che a volte si trovava anche al banco del pesce del mercato di Fratta Polesine, il suo paese, e si perse a raccontare di quando con i suoi amici andavano in bicicletta a fare il bagno nella sponda veneta del fiume. «Voi quanti figli siete?». Poi passa all’omofobia littoria che contrasta l’amore lesbico fra Tina e Lucia, «sognatrici di democrazia», figlie l’una di un gerarca fascista, l’altra di un socialista, Giulietta e Romeo che incontrano Valdimir Luxuria: «Lei si girò verso la folla e vide decine di gagliardetti innalzati sul mare di camicie nere. Smise di correre e cominciò a camminare a passi lunghi e decisi, si fermò davanti a lei, la spinse contro il muro e la baciò».
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IL CAMERATA
Altro transito sulla «teoria del complotto» (di modissima per la destra becera, secondo la vulgata sinistra) immaginato dal padre camerata riguardo la figlia “invertita”: «Proprio ora che iniziava un periodo pieno di opportunità e possibilità di carriera, lui rischiava di essere travolto dallo scandalo di una figlia invertita. Per giunta andava con una puttanella, parente o probabilmente figlia di un capolega. E se fosse stato costruito tutto ad arte per incastrarlo e ricattarlo? Un piano di Fortini? O di quel Milvano Callegari per vendicare la morte del padre? Ma perché colpire proprio la sua famiglia? Né Fortini né Callegari potevano sapere che i suoi figli erano nella squadra di fascisti, quella notte».
Eppoi, ecco, ancora l’agnizione. Il finale che richiama in molti dem tutta la “poetica” della gestazione per altri -per i fasci dicasi “utero in affitto”- in attesa di sdoganamento politico: «Lei entrò e riconobbe la lunga sala piena di libri fino al soffitto e il portone di vetro e ferro battuto che aveva visto nel film. L’aria di primavera sollevava una tenda rosso ocra, lasciando entrare la luce dal giardino. Gina e Angiolina erano scese dalle scale e trovarono una ragazza minuta che stava ferma in piedi, al centro della sala, con lo sguardo pieno di fierezza. Sorrisero e lei si presentò: “Sono Ginisca, la figlia di Tina e Lucia”». Quel che non fece Zan fece Franceschini. Ad occhio, Aqua e tera – non scritto male, in fondo Franceschini in Francia è pur sempre un Gallimard- non è un romanzo brutto. È un romanzo, direi, inutile. O forse è utilissimo per gestire strategie di politica politicata che nulla hanno di letterario...
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