L'impulso ideologico di "educare" la gente, antico vizio della pedagogia civile
C’è un’idea che fa parte dell’“ideologia italiana”, cioè di quell’insieme di nozioni irriflesse e non pensate che costituiscono il sapere di sfondo su cui si è costruita la retorica dominante nella nostra Repubblica. In verità, è un’idea che ha una lunga storia nella cultura occidentale, anche se forse mai come in questo periodo si affaccia nel dibattito pubblico. Essa si esprime nella ricerca costante della “competenza” e nella capacità che si richiede a un politico di fare opere di “educazione civica”, odi “pedagogia civile”, nei confronti dei cittadini. Sconsolati, si osserva poi che, se ciò non avviene, è perché il principio democratico non funziona e premia non i migliori ma i peggiori. In sostanza, chi dovrebbe “educare” non è a sua volta “educato”.
Per quanto affascinante e consolatorio, questo insieme di idee contiene non pochi errori concettuali ed è in genere pericoloso sia per la democrazia sia per la libertà di una società. Prima di tutto, sorge l’evidente problema di capire chi, e in base a quali valori, possa dare patenti di competenza e moralità a determinate persone piuttosto che ad altre. Poi bisognerebbe intendersi su quale è la competenza richiesta a un politico, rendendosi conto che essa è ben altra cosa da quella meramente tecnica. Che il politico possa, e forse debba, avvalersi di tecnici nell’esercizio delle sue funzioni, lo si può ben ammettere.
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Tuttavia, la competenza che a lui si richiede è quella che si manifesta in politica, non nei campi specifici dell’attività umana. Giusto per fare un esempio, non è detto che un medico sia per principio un buon ministro della sanità, né che un professore sia la persona più adatta per fare il ministro dell’università. Molto spesso costoro falliscono perché hanno una visione settoriale, sindacale, dell’ambito di loro pertinenza. Il politico, al contrario, deve avere una visione d’insieme, deve saper calare le esigenze specifiche nel contesto generale della società. Come dicevamo, l’idea di una melior pars che debba guidare ed educare la maxima pars accompagna la nostra storia almeno dai tempi di Platone, il quale aveva messo a guida della sua repubblica ideale dei filosofi-re, cioè i saggi, coloro che conoscono la “verità” o hanno le chiavi giuste per accedervi.
La virtù, in questa prospettiva tardo-pagana, è conoscenza, sapere, non amore, carità, miserircordia, cioè i valori del cuore che i cristiani introdurranno nella nostra civiltà. Seppur minoritaria, l’idea di una “epistocrazia”, cioè di un potere da consegnare ai colti e ai “puri”, arriva fino ai nostri giorni. E si confonde con quella di una casta chiusa e autoreferenziale, il cosiddetto deep state, che reggerebbe le sorti di uno stato e permetterebbe di preservarlo, oltre le contingenze politiche. In verità, come ci hanno insegnato i classici del pensiero politico, nelle nostre società complesse la conoscenza è diffusa, dispersa in mille rivoli, e nessuno può ritenenersene il depositario esclusivo. Così come nessuno può dirsi detentore unico della moralità, la quale fra l’altro può scadere in moralismo: cioè in una retorica ipocrita che nasconde passioni e pulsioni al contrario “umane, troppo umane”.
Lo “stato pedagogo” altro non è che una variante dello “stato etico”, cioè di uno stato che sposa una convinzione e non tollera chi la pensa diversamente. Chi argomenta per contestare o correggere l’opinione accreditata viene considerato come una persona immorale, da non far nemmeno parlare, da isolare, o appunto da “educare”. In verità, se una “educazione” deve esserci in una società democratica, essa è proprio quella al dialogo, al ragionamento, al confronto. Significa forse questo discorso che “uno vale uno” e che non debba esistere una classe dirigente? Niente affatto.
In democrazia essa ha però alcune caratteristiche ben precise: nasce dal basso, nel senso che interpreta (e incanala) i sentimenti popolari, a cui fa costante riferimento; si afferma attraverso la competizione con altri gruppi che di volta in volta aspirano a farsi élite; è provvisoria, sempre chiamata a confermarsi o a cedere lo scettro ad altre e più adeguate classi dirigenti. L’impressione è che ultimamente si siano portate avanti politiche impostate da una casta di potere, spesso transnazionale, che si è ritenuta “superiore”. Presentando come dogmi le sue convinzioni, essa poco si è curata di fare i conti con le idee e i bisogni emergenti dalla società.
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