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Alessandro Giuli, la palude della Cultura: faide, rancori e correnti. Cosa rischia al ministero

Daniele Dell'Orco
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Contro la sagoma di Gennaro Sangiuliano, già emaciata per via delle note vicende, hanno iniziato ad infierire non soltanto i becchi aguzzi dell’opposizione, quelli che dal giuramento del governo Meloni si prodigano ogni giorno per dipingere l’Italia come fosse Beirut dopo l’esplosione del porto, ma pure i tecnici del mondo della cultura. A sentirli parlare ex post, ora che il già ministro è al tappeto, il biennio abbondante di Sangiuliano al Collegio Romano sembra essere stato un fallimento su tutta la linea.
Politico, s’intende.

Il motivo di base è molto semplice: Sangiuliano ha provato a mettere mano ai ferri. Quindi, ha scontentato qualcuno, o più di qualcuno. A prescindere. È un destino comune a tutti i ministri della Cultura e sarà certamente stato il primo pensiero balenato nella mente di Alessandro Giuli quando il suo smartphone s’è illuminato col viso di Giorgia Meloni. Perché non ci si lasci ingannare dall’attuale abbreviativo MiC, adottato dal 2021, il Ministero è una selva oscura da 12mila dipendenti, decine di milioni di budget e la responsabilità di dover gestire il patrimonio di una superpotenza culturale il cui settore culturale movimenta, in senso lato, 95 miliardi l’anno.

 

Ai tempi di Giovanni Spadolini si chiamava Ministero per i Beni Culturali e Ambientali. Turismo e spettacoli erano in carico alla presidenza del consiglio, gli archivi li gestiva il Viminale. Poi, con le varie riforme, ha iniziato ad acquisire talmente tante competenze che se le elencassimo tutte doppieremmo l’acronimo LGBTQIA+. C’è il turismo, c’è il paesaggio, c’è il cinema, ci sono il teatro, la danza, la musica, gli spettacoli viaggianti. C’è ovviamente l’editoria, ci sono le biblioteche e ci sono le arti in tutte le loro forme.

In questa selva oscura i vari ministri non si trovano solo a doversi confrontare con gli aspetti politici e gli indirizzi governativi, ma prima ancora a cercare di armonizzare le varie “anime”. E ognuno lo fa a modo suo. Sangiuliano, ad esempio, ha riorganizzato il dicastero scegliendo di sopprimere la trentina tra direzioni generali e uffici autonomi esistenti e il moloch rappresentato dal segretario generale (gestore diretto delle risorse sia nazionali che europee) con quattro dipartimenti: uno per l’amministrazione generale (Diag), uno perla tutela del patrimonio culturale e del Paesaggio (Dit), uno per le attività culturali (Diac) e uno per la valorizzazione del patrimonio culturale (Diva).

Rocco Buttiglione, tra il 2005 e il 2006, impostò una suddivisione simile. Ben più amanti dell’accentramento sono stati invece, seppur in epoche diverse, Walter Veltroni (1996-’98) e Dario Franceschini (2014-’18), le cui esperienze gestionali hanno in comune due tratti: di essere rosse, sì, ma soprattutto di essere politicamente in capo a profili molto potenti. Il primo vicepremier di Romano Prodi, il secondo da titolare di una delle correnti più influenti nel Pd dei “bei tempi”.

 

Perché quando uno pensa al Ministro della Cultura si immagina che debba essere istruito, colto, un mammasantissima tra i dotti. La stessa sinistra sgraziata, che oggi rimprovera a Giuli di non aver terminato il suo percorso di laurea, dimentica non solo che lo stesso Veltroni, e dopo di lui Francesco Rutelli, furono scelti da loro per lo stesso incarico con in tasca un semplice diploma, ma soprattutto che ciò, di per sé, non è affatto un problema. Conta molto di più quanto si abbiano presenti i sussuri che provengono da dentro al Collegio Romano: di notte si sentono i passi insofferenti di Galileo Galilei in attesa di processo, ma di giorno si avvertono gli spifferi delle “anime”: ci sono gli amministrativi contro i tecnici, gli architetti contro gli storici dell’arte e gli archeologi, gli intellettuali contro i cineasti.

Appena un esponente della categoria acquisisce un ruolo di potere, nomina tutti gli omologhi per le posizioni aperte, tra cui le potentissime soprintendenze (ne sa qualcosa l’ex premier Mario Draghi, che ci si scontrò per il suo piano di promozione dell’eolico). E la tribù rivale insorge. Alessandro Giuli dovrà dimostrare di sapersi muovere nella selva oscura. Il modo più semplice per provare a farlo, innanzitutto, è starci dentro. Ciò significa poche cerimonie, poche inaugurazioni, poche trasferte e tanto, tantissimo ufficio. Conoscere le stanze, leggere i dossier e guardare negli occhi i dirigenti è indubbiamente un ottimo modo per far sentire la propria presenza.

Poi serviranno equilibrio e saggezza nelle nomine, per cercare di non inimicarsi nessuno dei capi indiani ma allo stesso tempo individuare i profili, professionali e umani, più adatti per le soprintendenze. Infine, cercare un buon compromesso tra la volontà di Palazzo Chigi di mettere fine in fretta all’egemonia culturale della sinistra e la necessità di una realpolitik che potrebbe necessariamente avere tempi (e modi) diversi. Facile immaginare, viste queste premesse, per quale motivo, a mo’ di battuta ma non troppo, dentro al MiC c’è chi dice che per gestire tutto sarebbe preferibile che alla guida ci fosse sì un Ministro, ma dell’Interno.

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