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Israele, dà la caccia ai nemici con la forza morale che l'Occidente ha perduto

Fausto Carioti
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Il Male quel giorno aveva la faccia di Ahmed Wadia. La scena che lo vede protagonista, ripresa dalle telecamere dell’insediamento agricolo di Netiv Ha’Asara, è una delle più dure della mattanza del 7 ottobre.

Il terrorista palestinese ha appena ucciso un israeliano, Gil Taasa, davanti alla sua casa. Ha lanciato una granata, l’uomo si è immolato sull’ordigno per salvare i due figli più giovani, Koren e Shai, di 13 e 9 anni. Gli orfani sono sporchi di sangue, e il sangue non è solo quello del loro genitore. Shai è ferito a un occhio, cercano subito rifugio in casa. Col fucile sulle spalle l’assassino entra nella loro stanza, apre il frigorifero, prende una Coca-Cola e la beve. Ha la tranquillità di chi sta facendo la cosa più normale del mondo. I piccoli lo guardano terrorizzati. Koren, disperato, si domanda: «Perché sono ancora vivo?». Il fratello ripete «mamma, mamma». Poi l’uomo che non potranno mai dimenticare esce e i due riescono a scappare. Sapranno dopo che il loro fratello maggiore, Or, 17 anni, andato a fare surf, è stato ucciso sulla spiaggia durante l’attacco a sorpresa.

 

 

 

Quel giorno Wadia è entrato nella lunghissima lista nera dell’esercito israeliano e dello Shin Bet, il servizio di sicurezza interno di Israele. C’è rimasto per undici mesi. Lo hanno raggiunto e ucciso lunedì notte. Nel comunicato dei militari si legge che lui e altri terroristi del suo battaglione sono stati scoperti «vicino al complesso dell’ospedale Al-Ahli a Gaza City», che «nessun attacco è stato condotto all’interno dei locali dell’ospedale» e che prima dell’assalto «sono stati presi numerosi provvedimenti per ridurre il rischio di danni ai civili, tra cui l’uso di munizioni precise, sorveglianza aerea e ulteriore intelligence». Una delle operazioni più pulite fatte dall’esercito israeliano.

«Mio figlio Koren mi ha detto che voleva vedere una foto di Wadia morto», ha commentato la vedova di Gil, Sabin. «Personalmente», ha aggiunto, «chiuderò il cerchio solo dopo aver saputo che tutti i membri di Hamas e Sinwar», il capo dell’organizzazione e pianificatore del massacro, «saranno stati eliminati». Sotto l’aspetto morale, Israele e gli israeliani non sono cambiati. Sono gli stessi del 1948 e del 1972, quando il Mossad, su ordine del premier Golda Meir, avviò l’operazione “Ira di Dio” per colpire ovunque nel mondo i mandanti e gli organizzatori del massacro dei loro atleti alle olimpiadi di Monaco di Baviera, perpetrato dal gruppo Settembre Nero. Un lavoro lungo anni, il cui bersaglio più importante era la guardia personale di Yasser Arafat, Ali Hassan Salameh: fatto saltare in aria da un’autobomba a Beirut nel 1979.

A essere cambiato è il resto dell’Occidente. Che già all’epoca faticava a riconoscersi nella forza morale di Israele, e da allora ha perso quasi del tutto la capacità di accettare l’esistenza del Male e la necessità, quando lo si ha davanti, di fargli la guerra. La dote che Winston Churchill, Charles De Gaulle e Franklin D. Roosevelt possedevano, manca ai loro epigoni. Non riguarda solo l’Europa. Per decenni si è detto che gli europei venivano da Venere e gli statunitensi da Marte, e in fondo era vero. La differenza c’è ancora, e rimarrà fin quando tutti gli americani non rinunceranno al diritto di portare con sé un’arma e tutti gli europei non capiranno che la spesa militare è un investimento sulla pace e la propria libertà, che torna utile quando il Male si presenta alla porta di casa. Però il contagio c’è stato, gli Stati Uniti anche sotto questo aspetto si sono “europeizzati”, la Storia stessa dell’Occidente oggi viene raccontata nei loro atenei come una sequenza di violenze perpetrate da maschi bianchi sugli altri popoli e sul pianeta.

Pure lì ogni valore è stato relativizzato, il giudizio morale si è fatto debole, il concetto di Male è stato destrutturato, i confini che lo delimitano sono diventati prima labili e poi quasi invisibili. Vittime e carnefici sono solo diverse sfumature di grigio: che ne sappiamo noi delle sofferenze di quegli assassini, come ci permettiamo di giudicarli? Come possiamo farlo, se non siamo migliori di loro? Sulle due sponde dell’Atlantico, l’appeasement che Churchill aveva denunciato dopo gli accordi di Monaco («Potevate scegliere tra la guerra e il disonore. Avete scelto il disonore e avrete la guerra») è diventato per molti leader il risultato ideale, chiunque si abbia davanti: siano i talebani afghani, Vladimir Putin o i tagliagole di Hamas.
Israele è l’unica eccezione: l’ultima democrazia che non prova imbarazzo nel chiamare il Male col suo nome e combatterlo nel nome di Dio.

Vale pure per la sua sinistra, diversa per motivi storici: mentre quella europea sventolava il libretto rosso di Mao e guardava all’Urss come alla casa della pace, lì la laburista Golda Meir costruiva le ossa e i muscoli del sionismo e dava la caccia agli assassini del suo popolo. L’abisso di differenza che vediamo oggi è anche merito suo, ed è il motivo per cui la sinistra europea non la considera nemmeno una lontana parente.

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