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Marco Doria e la Liguria: "Pd e M5s obbligati al campo largo. Ma riusciranno a governare?"

Pietro Senaldi
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 «La sinistra è cambiata in questi sette anni da che non sono più sindaco di Genova, ma io leggo in una prospettiva temporalmente assai più lunga i suo mutamamenti. Li collego ai cambiamenti della società; in primis al ridimensionamento numerico e alla metamorfosi delle classi popolari, basi storiche dei partiti di sinistra. Inoltre, sin dalla fine del Novecento, le principali forze della sinistra in Europa sono state assai incerte (e spesso subalterne) nel confrontarsi col main stream neoliberista. Il che ha impedito loro di avanzare proposte adeguate e in grado di raccogliere consenso. E ciò vale anche per la sinistra ligure».

Marco Doria, discendente di una delle più nobili e importanti famiglie genovesi, è professore di Storia Economica; e si capisce fin dalle prime parole. Ragionamenti prospettici, scarso interesse alle beghe politiche, una continua tensione tra ideali e filosofia. Figlio di Giorgio, il marchese rosso, soprannome che ha ereditato, è comunista fin dall’età giovanile, proprio come Andrea Orlando, l’ex ministro Pd candidato in pectore alle Regionali per il campo largo. Nel 2012 divenne sindaco di Genova sconfiggendo alle primarie due dirigenti dem, Roberta Pinotti, futura ministra renziana, e Marta Vincenzi, prima cittadina uscente. «Credo sia stata importante la mia immagine di cittadino impegnato e indipendente, fuori dai meccanismi dei partiti», ricorda.

 

 

 

Professore, perché è così faticosa l’ufficializzazione della candidatura di Orlando? 
«Penso dipenda soprattutto dalla difficoltà di tenere insieme componenti diverse di una coalizione articolata».
 

La compatibilità in Liguria tra MS5 e Iv è sempre più problematica: è possibile, citando Orlando per cui “vanno tenute in conto le specificità dei territori” prevedere un campo largo senza i centristi? 
«Si tratta di un’ipotesi plausibile».
 

Prevede una scissione possibile di M5S, di cui la lista Morra potrebbe essere il primo esempio? 
«Non ritengo al momento probabile una scissione del M5S. Credo che nuocerebbe agli uni e agli altri. E non penso che liste “scissioniste” possano avere un peso elettorale significativo».
 

La sensazione però è che il campo largo fatichi a trovare equilibri in Liguria. Elly Schlein ha già ufficializzato i candidati alla presidenza di Emilia-Romagna e Umbria. Non lo sta abbandonando? 
«Mi auguro di no. Certo è che la scelta deve anche in Liguria essere compiuta in tempi rapidi».
 

M5S, dopo aver presentato Luca Pirondini come alternativa, ha dichiarato di puntare su Orlando. Lei sconfisse i grillini nel 2012: oggi M5S è un alleato affidabile per la sinistra? 
«La situazione da allora è davvero cambiata ed è cambiato anche il M5S. Non sta a me dare patenti di affidabilità ma penso che oggi l’alleanza sia obbligata, oltre a tutto per meccanismi elettorali che penalizzano chi non si aggrega».
 

A frenare il percorso di Orlando sono, però, le perplessità di M5S sull’appoggio di Italia Viva, a cui Giuseppe Conte sbarra la strada. Ha futuro un campo largo che va da Fratoianni a Calenda e da Conte fino a Renzi?  
«Di fronte a una coalizione di centro destra, a trazione di destra e capace di mettere in secondo piano le differenze esistenti al suo interno, la costruzione di un “campo largo” ad essa alternativo è la strada da percorrere. Su quanto poi a livello locale il campo debba e possa essere largo sono opportune valutazioni specifiche».
 

Nel campo largo però ci sono visioni distinte sulla Liguria: chi vuole le grandi opere, chi non le vuole, chi le vuole cambiare. L’alleanza non è affetta da una deriva ideologica tale da finire per impedire un’azione di governo efficace? 
«Perché parlare di deriva ideologica per il campo largo? La scelta di tenere insieme forze dalle sensibilità diverse, concentrandosi sui possibili denominatori comuni non mi pare viziata da un approccio ideologico. La proposta di legge sul salario minimo, la difesa della sanità pubblica, l’opporsi alla proposta di autonomia differenziata esprimono posizioni chiare su questioni di enorme importanza. Da ciò a un’azione di governo efficace il passo da compiere è comunque, ne convengo, lungo e difficile».

 

 

 


Lei è favorevole alle grandi opere progettate per la Liguria: diga, tunnel, alta velocità, bancamemto del porto, ecc...? 
«Ogni grande (e piccola) opera va valutata nel merito. Metterle tutte insieme indistintamente risponde ad approcci che ritengo ideologici, propagandistici e/o superficiali. Entrando nel merito – rapidamente e schematicamente data la complessità dei temi da lei sollevati – penso che potenziare e velocizzare il collegamento ferroviario con Milano (e la Svizzera) sia fondamentale e strategico per Genova e il Paese. Sul tunnel subportuale (opera di interesse prettamente genovese) mi impegnai da sindaco per non affondare il progetto. Sulla diga sarebbe stata opportuna una discussione più ampia in grado di valutare adeguatamente soluzioni anche diverse da quella ora in complicata fase di realizzazione. Altre grandi opere hanno costi e impatti enormi del tutto eccessivi rispetto ai potenziali benefici conseguibili».
 

Al di là della vicenda giudiziaria, pensa che la Liguria sia migliorata o peggiorata con Toti? 
«La Liguria vive da anni, come l’Italia ma peggio di molte altre regioni del Nord, una fase di stagnazione economica».
 

Lei si sarebbe mai dimesso, se indagato, ritenendosi innocente? 
«Domanda astratta. Io non sono mai stato su uno yacht di un imprenditore, come accaduto a Toti, a parlare delle sue concessioni portuali e al tempo stesso a sollecitare finanziamenti per le campagne elettorali. Quando emerge un caso come questo le dimissioni sono obbligate e devono essere immediate».

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