Cerca
Logo
Cerca
+

Alle Feste dell'Unità il dialogo non c'è più

Francesco Specchia
  • a
  • a
  • a

Rieccoli, i bei comunistoni di una volta, quelli che mangiavano i bambini e divoravano i fascisti, e allestivano i piatti di pizzoccheri e polenta concia, alla ricerca dell’identità e delle salamelle perdute. Rieccoli, i veterani col sorriso annerito dalla brace, gli eroi del volantino, le figurine ritagliate nell'ideologia, compagni-deicampi- e - delle officine.
E rieccolo, lo spirito primigenio della Festa dell’Unità – che non è esattamente quello dell’ospitalità - elevarsi nelle parole del capogruppo Pd in Consiglio Regionale pugliese Paolo Campo: «Il governo di Giorgia Meloni è fascista», e quindi «la festa rappresenterà una possibilità, anzi, l’impegno che tutti dobbiamo profondere per scongiurare il disegno eversivo di modificazione della Costituzione». In soldoni: stavolta niente inviti ai fasci e ai nemici del popolo, ché siamo sott’elezioni, signora mia, e non si sa mai. La svolta è un po’ identitaria, e un po’ autoritaria. Perché la chiusura totale agli esponenti del centrodestra, non vale soltanto per le Festa dell’Unità del Tavoliere. Ma si applica, contemporaneamente, a quella modenese («Nessun esponente del centrodestra alla Festa: è una fase in cui vogliamo trasformare l’opposizione in alternativa di governo a livello nazionale, ma anche a livello locale dove non amministriamo»), a quelle toscane, genovesi, venete. Soprattutto, alla Festa dell’Unità bolognese.

LA NUOVA TRINCEA
Bologna è il simbolo della nuova trincea. È la città in cui la stessa segretaria Elly Schlein detta le linee guida, giustifica la sua strategia: nel declinare gli inviti degli altri (lei stessa aveva rifiutato quello al meloniano Atreju) e nel vietare gl’inviti propri a chiunque militi dall’altra parte della barricata. Dice Schlein che «in passato lo abbiamo fatto adesso però siamo in una fase politica diversa e l’obiettivo è trasformare a livello nazionale l’opposizione in alternativa di governo. Abbiamo invitato esponenti di forze che vorremmo alleate, è già sufficientemente impegnativo tenere unita tutta la coalizione di centrosinistra...». La direttiva-Schlein possiede una sua logica. Urge serrare i ranghi dei compagni che s’avviano al pericolante allestimento del “campo larghissimo” di questa militantissima estate, in cui la furia referendaria richiede militanza cieca, pronta e assoluta. Torna, insomma, la tigna dei vecchi trinariciuti di Guareschi, insomma. Una tigna legittima, seppur ineducata.

Quindi, ecco rifiutare i cortesi inviti alle parti avverse; ed ecco il richiamo alle armi dei compagni dispersi. A Milano si materializzeranno Elly Schlein, il sindaco Beppe Sala e il presidente dem Stefano Bonaccini, ma anche il leader di Azione Carlo Calenda che non si sa cosa ci faccia da quelle parti; e Maria Elena Boschi di Italia viva e Alessandra Todde, presidente della Sardegna. In provincia di Torino trotteranno Stefano Bonaccini, Giuseppe Provenzano, Chiara Gribaudo, Roberto Speranza. Sempre a Bologna campeggeranno la Elly, Maurizio Landini, Matteo Renzi, Massimo D’Alema, Stefano Bonaccini. Quello più a destra è Renzi. E, certo, c’è anche questa faccenduola che Italia Viva e il Movimento Cinque Stelle si odiano, e l’uno annuncia di disertare alla presenza dell’altro e viceversa. E, certo, anche l’anno scorso, l’ostracismo verso l’avversario fu la scelta più diffusa, anche a destra – a dire il vero dove la Lega a Pontida, per scelta irrinunciabile, non ammette avversario politico. Ma, insomma, una volta era diverso. Una volta, la democrazia, alle Feste dell’Unità si misurava sulla frequenza dei dialoghi, degli inviti spiazzanti, degli “incroci pericolosi”. Dell’onore delle armi per un nemico che mai smettevi di combattere.


Prendete Berlusconi, era spesso lì, a girellare tra gli stand col suo sorriso d’ordinanza. «È la fine degli anni ’70, un giovane Silvio esce dalla villa di Arcore con la scusa di andare a protestare per la musica troppo alta della locale festa dell’Unità» scrive Francesco Merlo «resterà lì per due ore a fare l’affabulatore, fino addirittura a dire che “Vedete, miei cari, sono un compagno anch’io, come voi, però riformista, dovreste imparare da Craxi”». E non sarà la sola volta. Apparve nel 1995, su invito di Massimo D’Alema che gli oppose il metalmeccanico Salvatore Buglio; il quale, grazie proprio a quella performance contro il “nemico pubblico numero uno” ottenne una candidatura in Parlamento. E nel 2007, Berlusconi lasciò l’ultimo congresso della Quercia, dopo la relazione di Piero Fassino, quasi commosso e tra gli applausi che lo spingono al paraculismo sublime: «Se questo è il futuro Partito democratico, al 95 per cento sarei pronto a iscrivermi anch’io...».


Sempre nel 1995 Walter Veltroni portò alla Festa dell’Unità Gianfranco Fini, leader di Alleanza Nazionale. Fini si fece valere in un indimenticato vis-à-vis così connotato dallo stesso Veltroni: «Il valore della festa è questo, confrontarsi tra schieramenti avversari con rispetto e nel comune obiettivo di lavorare per il bene del Paese». L’anno prima era toccato a Indro Montanelli, nemico eterno dei comunisti, che allora, da fondatore antiberlusconiano de La Voce venne accolto da scrosci d’applausi («Vi prego basta, ve lo chiedo per legittima difesa», supplicò Indro, sconvolto). Poi arrivò Renato Schifani ospite del Pd da presidente del Senato. E, ancora, fu il turno di Enrico Letta, che a sua volta aprì la Festa dell’Unità a Renato Brunetta e Giancarlo Giorgetti, ministri di Mario Draghi, alla Boschi e a Giuseppe Conte. Aveva invitato anche Galeazzo Bignami plenipotenziario di FdI ora viceministro. Gli ultimi ospiti dipeso risalgono nel 2021, in tempi di coalizioni tecniche: sempre Renato Brunetta e Maria Stella Gelmini, ancora abbastanza odiata a sinistra a causa della sua riforma scolastica.

IL CASO ATREJU
La libera circolazione delle idee, la sana dialettica dei botta-e-risposta, le ordalie di tutti gli dei della politica hanno accompagnato, negli anni, anche Atreju, il contro-rifugio della nuova destra nascente. Una giovanissima Giorgia Meloni portò sul quel palco il presidente della Camera Fausto Bertinotti a discutere con il segretario del partito Fini. Parlarono di capitalismo e globalizzazione, si scontrarono sulle droghe leggere, Bertinotti condannò i carri armati a Budapest e a Praga e l’intera ideologia sovietica, ma difese Fidel Castro. Giorgia lo sfidò a pronunciare «ramarro» stuzzicandone il rotacismo. E, dalle parti di Atreju, transitarono pure Rosy Bindi, Luciano Violante, Nicola Zingaretti, Giuseppe Conte,il solito Renzi. Marco Minniti ministro degli Interni entrò tra i fischi e uscì tra gli applausi dopo aver parlato della stanza di Italo Balbo e della scrivania di Mussolini assegnatagli da fresco sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Tutto questo viene ora sacrificato alla lotta di classe e di partito. Di realmente democratico restano le salamelle, sotto le braci del nostro scontento...

Dai blog