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Rai, la tentazione di Giorgia Meloni: privatizzare, cosa filtra da Palazzo Chigi

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Corrado Ocone
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Sarebbe la mossa del cavallo, se mai dovesse realizzarsi. Parliamo della privatizzazione della Rai, sempre evocata e mai attuata, ma che secondo le indiscrezioni il governo avrebbe in mente di avviare e portare a termine, nella misura del cinquanta per cento, nel corso della legislatura. Vi immaginate la faccia che farebbero i cari “compagni” se questo progetto si realizzasse? Sì, proprio loro che negli anni si sono spartiti a Viale Mazzini e a Saxa Rubra persino i posti di elettricista e che oggi hanno la faccia tosta di accusare la loro azienda di essere divenuta “TeleMeloni” quando qualcosa gli va storto? Facendo finta di non sapere che tutti, o quasi tutti, i gangli vitali della “macchina” sono ancora saldamente nelle loro mani.

Cosa racconterebbero agli italiani a cui hanno parlato di un’«occupazione» in atto, affermando senza un minimo di pudore che la «libertà di informazione» era in pericolo? Certo, è probabile che la tiritera si trasformerà in quell’altra canzone da organetto intonata in questi casi, che è quella della «svendita di pezzi dello Stato» e di asset strategici. Quasi che allo Stato tocchi far tutto e anche male. La verità è però che una eventuale privatizzazione, anche solo parziale, della Rai sarebbe una memorabile operazione non solo e non tanto economica, ma culturale: una vera e propria rivoluzione!

 

 

Essa non solo farebbe entrare nelle casse dello Stato un bel po’ di denaro, non solo favorirebbe una gestione dell’azienda più efficiente e meno dispendiosa per i contribuenti, ma taglierebbe alla radice ogni indebita commistione fra potere politico e cultura, essendo pur sempre la Rai, come si dice, «la più grande industria culturale» del Paese. Quando cultura e politica vanno a braccetto, infatti, c’è sempre un doppio pericolo che fa capolino: che si affermi una «verità ufficiale», o peggio «di Stato», e che la cultura perda la sua necessaria autonomia e si asservisca ai potenti di turno.

La privatizzazione sarebbe un’operazione di pulizia mentale e morale. Oltre che una salutare iniezione di liberalismo in un corpaccione malato e poco avvezzo a questo tipo di cure quale è quello dello Stato italiano. Il principio liberale della concorrenza non è infatti solo un principio economico, come si è portati a credere, ma anche un elemento cardine per il buon funzionamento e la vitalità della cultura. Non concerne solo le merci, ma anche le idee. Esso stimola a cercare e a far emergere sempre nuove idee, pronte a mettersi alla prova del pubblico senza intermediari. Il merito, o almeno quello riconosciuto come tale, avrebbe maggiori possibilità di affermarsi in un regime di vera concorrenza.

Che la cultura italiana sia in una fase di declino, che la situazione odierna non sia nemmeno paragonabile a quella degli anni seguenti al secondo conflitto mondiale, è evidente ad occhio nudo. Basta scorrere l’elenco dei vincitori del premio Strega di un tempo, nonché rileggere quei romanzi divenuti classici, e poi paragonarli agli attuali, per rendersene conto. E che dire del grande cinema, dal neorealismo alla “commedia all’italiana? Oggi vediamo quasi solo conformismo, idee pret-a-porter, spirito di casta, amichettismo. E la Rai ha fin troppo assecondato questi processi, o addirittura ha contribuito a crearli.

A dimostrazione chela cosiddetta “egemonia culturale” della sinistra non ha rappresentato solo un fattore di compressione e annullamento delle voci fuori dal coro, ma anche di caduta della qualità complessiva del sistema. Cari compagni, pensate di essere i più bravi e colti e che gli altri sono “barbari” e “fascisti”? Bene, mettetevi in gioco e vediamo cosa siete capaci di realizzare senza protezioni o reti di sicurezza. Paventavate di dover condividere un minimo di potere coi nuovi arrivati? Bene l’acqua alla fonte la tagliamo a tutti, a voi e a noi stessi, e da oggi in poi dovete conquistarvela con inventiva, creatività, qualità, se ne avete o ne siete capaci.

Come è stato affermato più volte su queste colonne, dalla situazione culturale attuale si esce non sostituendo una “contro-egemonia” alla vecchia di sinistra, o promuovendo i propri amichetti a discapito degli altri. Se ne esce solo sparigliando il tavolo da gioco, cambiando le regole. In sostanza, aprendo le finestre e lasciando che si respiri aria nuova. Una eventuale privatizzazione della Rai agevolerebbe, materialmente e simbolicamente, questo processo. Ed il centrodestra, se la portasse a termine, non vincerebbe una battaglia, ma forse la guerra.

 

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