Così la Consulta impone i trans alla politica: la tentazione di sostituirsi al Parlamento
È una sentenza complessa, dou- ble face, quella emessa ieri dalla Corte costituzionale sulla possibilità di riconoscere un “terzo genere” sessuale accanto a quelli tradizionali di uomo e donna. Si tratta di un tema di confine, che interessa una piccola minoranza di individui e risolvibile senza dubbio col buon senso e la mera ragione pratica. Esso però è, da qualche anno, al centro del dibattito politico, ove è stato portato dalla sinistra liberal globale. Sulla centralità assunta da questa tematica pesano motivi ideologici di vasta portata, non sempre visibili e non certo riconducibili alla tradizionale attenzione per le minoranze e gli svantaggiati che ha contraddistinto la sinistra classica. Quel che si chiedeva alla Corte, nella fattispecie, era di pronunciarsi sul caso di un giovane transgender altoatesino che, dopo essersi sottoposto a una terapia ormonale intensiva, aveva chiesto di essere registrato all’anagrafe come appartenente al “terzo genere”.
I giudici costituzionali hanno ammesso che un eventuale riconoscimento di questo tipo non può avvenire per via giudiziaria, ma spetta al Parlamento in quanto interprete della sensibilità sociale. Non si sono però limitati a constatare questa impossibilità, ma, a mio avviso, hanno in qualche modo suggerito al legislatore di occuparsi del problema e risolverlo in un direzione piuttosto che in un’altra, cioè in quella del riconoscimento dei “generi altri”. Prima di tutto, va osservato che passare la palla al parlamento non è solo, per i giudici, una questione di competenze, ma anche di complessità degli interventi richiesti: «L’eventuale introduzione di un terzo genere di stato civile avrebbe un impatto generale, che postula necessariamente un intervento legislativo di sistema, nei vari settori dell’ordinamento e per i numerosi istituti attualmente regolati con logica binaria».
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ORDINAMENTO A RISCHIO
In sostanza, ammettendo il terzo genere salterebbe buona parte del nostro ordinamento giuridico, dal diritto di famiglia a quello del lavoro, dalla disciplina dello stato civile a quella che regola la vita stessa di luoghi pubblici quali carceri e ospedali. In definitiva, i giudici si rendono conto che non si tratterebbe di un semplice riconoscimento legislativo ma della cancellazione di tutto l’ambiente sociale e culturale da noi ereditato e fatto di usi, abitudini e tradizioni sedimentatesi nella nostra coscienza. Una vera e propria rivoluzione, ancora più radicale di quella comunista, volta a fare reset del passato e a creare ex abrupto il “mondo nuovo”. Il che ci fa capire anche l’enfasi che la sinistra, orfana del comunismo, mette in questo genere di questioni. Constatata questa radicalità, la Corte ha però ammesso come legittima «la richiesta delle persone non binarie di essere identificate come tali». Esse vivrebbero infatti «una situazione di disagio significativa rispetto al principio personalistico cui l’ordinamento costituzionale riconosce centralità» e che, «nella misura in cui può indurre disparità di trattamento o compromettere il benessere psicofisico della persona, questa condizione può del pari sollevare un tema di rispetto della dignità sociale e di tutela della salute».
PERSONALISMO E DIGNITÀ
Che il personalismo sia il fondamento ideologico predominante della nostra Carta, è fuor di dubbio. Esso, teorizzato soprattutto da filosofi cattolici come Jacques Maritain e Emmanuel Mounier, si presentò alla prova dei fatti come un alto e nobile compromesso fra l’individualismo liberale ed il comunitarismo delle forze di sinistre. Tuttavia, a quanto mi consta, il personalismo fa del riconoscimento della dignità di ogni individuo un principio assolutamente non utilitaristico, non riconducibile perciò al «benessere psico-fisico» o alla mera «tutela della salute». Più che un principio costituzionale, qui a me sembra agisca nei giudici, sicuramente in buona fede, un’idea tipicamente postmoderna, quella che riduce i bisogni di ogni individuo a diritti, e quindi a norme da stabilire per legge. Che è un po’ come mettere in scacco l’etica classica fondata sulla “volontà buona” di kantiana memoria. Non mi sembra poi un argomento probante il fatto, rilevato dalla Corte, che altri ordinamenti abbiano riconosciuto i generi non binari.
LIBIDO AUTOTRASFORMATIVA
Ancora più discutibile è la seconda parte della sentenza emessa ieri, in cui si dà il via libera ad ogni tipo di intervento chirurgico volto a cambiare il proprio sesso. D’ora in poi le persone transgender potranno ricostruire le parti del proprio corpo a proprio piacimento, in una libido autotrasformativa che rassomiglia molto a quella tracotanza prometeica teorizzata dai vari antiumanismi e transumanismi contemporanei. Credo che da questa situazione se ne possa uscire solo ritornando ai fondamenti della cultura liberale e democratica: è il Parlamento che su queste questioni deve decidere, in quanto espressione della volontà popolare; le leggi devono regolare il minimo possibile le questioni “eticamente sensibili” e non essere invasive.
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