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Silvio Berlusconi? Perché l'equivoco del Cav divisivo fa comodo a sinistra

Silvio Berlusconi

Ginevra Leganza
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Manco il tempo d’incensarlo per la memorabile intervista alla figlia Marina – e cioè per il lascito di liberalità, modernità, democraticità – che, ecco, sempre loro, gli stessi, insorgono adesso per l’aeroporto a Malpensa. Ed eccolo, dunque, Michele Serra. Che su Repubblica non ci sta. Cos’è – si domanda l’illustre giornalista – una tale stravagante pensata? Una tale diavoleria che solo l’estro “del Salvini”, ministro dei trasporti, poteva raffigurare? La domanda è incalzante. Il tono, incazzoso. Perché, foss’anche vento vago, fosse pure una vaghissima ipotesi, quella d’intitolare lo scalo a Berlusconi, tanto basta per rinfocolare la tigna del tempo andato.

E dunque Silvio, che ieri l’altro, nell’intervista alla primogenita sul Corriere, pareva rinato sotto il segno dei diritti e delle lotte Lgbt – Silvio open minded, Silvio liberale, Silvio socialista, Silvio di sinistra, insomma Silvio: il Cavaliere Arcobaleno – ecco che subito, e cioè appena ieri, tornava a essere il flagello di Rep. «Nessuno spirito di servizio», scriveva Serra nel suo commento. «Nessuna umiltà civile nel suo leaderismo, solo la vanteria del riccone che insegna al mondo come si fa». Motivi più che mai validi, questi, per chiedere che l’aeroporto tra Ferno e Lonate Pozzolo, lo scalo intercontinentale che lo stesso Serra derubrica ad aeroporto di campagna («in fondo è stata espugnata solo una landa prealpina»: sublime), non venga tributato al cavaliere inesistente. Al nemico la cui memoria va cancellata ovvero taroccata sotto la coltre di primogenite e morganatiche progressiste.

Comunque, al di là del tic oblomovista di Serra – l’abbiamo già detto? Sublime! – riflesso condizionato che in Malpensa vede un punto nel nulla (è l’aeroporto di Varese, scrive Repubblica, se non di Sesto Calende: non certo di Milano), ben oltre, ancora, l’argomento addotto (Silvio è fazione: non nazione; Silvio non unisce: divide), ecco, al di là di tutto, resta un tema che, gira e rigira, non torna.

 

 

 

Perché a dividere e non unire – si capisce – non è certo il Silvio in sé, quanto, piuttosto, il Silvio in Serra. E cioè quel Silvio che – pur sorvolando su cosa fu e cosa non fu, pur sorvolando sull’attuale arcobaleno (nella versione di Marina) – avrebbe comunque diviso e non unito. Così come divide e non unisce chiunque calchi la politica, chiunque prenda parte. Così come divise e non unì, metti, il generale de Gaulle (ben prima, perdonateci, del generale Vannacci): Charles De Gaulle cui Parigi titola il suo aeroporto. O forse ancora JF Kennedy – donnaiolo anch’egli, ci risulta, al pari di B. – ma pure a battesimo di un famoso scalo nel Queens, a New York. E sarà insomma che il politico – e qui siamo alla riscoperta dell’acqua calda – è divisione, fazione, partito in sé (e non in Serra). Ma non per questo indegno, crediamo – a fronte delle aerostazioni occidentali – di accaparrarsi una strada, una stella, o un aeroporto...

Uno scalo esistenziale che ne tramandi il nome oltre i pulviscoli della storia, della rabbia, della nostalgia. Ma vabbè. Si sa. Repubblica, non meno di noi, del Cavaliere è rimasta orfana (a proposito di nostalgia). Talché, quasi meglio di noi, il grande giornalista, Michele Serra, forse sotto l’invettiva di ieri – e qui s’azzarda la psicanalisi – rimpiange appunto il padre perduto. Ovvero i tempi del satiro che non c’è più ma che ancora aleggia e lampeggia in simboli e schede. Quel satiro che – e in questo sì: ci unì – fece la fortuna dei figli e dei figliastri (come un padre). La fortuna dell’amico e del nemico – incagliato ciascuno nel suo palinsesto – ma sempre intento, l’uno come l’altro, a cogliere i frutti della sua esistenza (larger than life). A raccattare, cioè, le monetine – B o anti-B – di quel suo campo dei miracoli che, da Fininvest e Forza Italia, da Repubblica al Fatto, cambiò per sempre il paese.

E poi – molto prima del Silvio che è in noi, prima ancora del Silvio che è in sé, ancor prima del Silvio in Serra – ci fu Silvio il gran lombardo. Il tycoon che importò le Americhe a Milano non meno che nelle cascine e nelle lande prealpine. Silvio di Milano che – alla faccia della fazione – unì la nazione in un comune immaginario (all’incirca come Fellini di Rimini: vedi aeroporto). E cioè unì, nel segno dei puffi e del suo Drive In, la metropoli a Lonate Pozzolo. Senza scorciatoie all’arcobaleno. Ma questo è troppo, lo sappiamo. E il Serra che in noi, questo no, non vuole sentirlo.

 

 

 

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