Giuseppe Conte cambia look: ora veste comunista
In principio furono le pochette. Il completo blu, le cravatte violetto, i fazzoletti a quattro punte centrati ad arte. Furono gli orologi in cocco – stile “paglietta” – e fu insomma Giuseppe Conte, l’avvocato del popolo – e dei populisti – che rispunta oggi come un fiore di campo. Per la precisione: fiore di campo largo. E dunque fiore spampanato, dimesso. Nei toni, vagamente appassito.In altre parole – da dandy a bohémien – chi rispunta, oggi, è il Conte malvestito. Il Conte che, a ridosso del Palazzaccio – tra Elly e WWF, Anpi e Rosy Bindi – si mimetizza un po’ come può.
Ma in fondo, ragionandoci, di che stupirsi? Fateci caso. Giuseppe, invero, porta nome Giuseppi – con la “i” – e si sa che la sua è natura plurale. Egli ha lo stigma del doppelgänger. Del bilocato. O, se preferite, del sosia di sé stesso. Ed eccolo lì, dunque, l’avvocato del popolo. Lì in Cassazione, venerdì, per presentare il quesito referendario che abroghi la legge sull’autonomia differenziata. Eccolo nell’ultima sua mutazione politico-vestimentaria che gli comanda, nel luglio 2024, cravatta amaranto e grigio vecchile (all’impronta: sartoria provinciale), in un cambio di rotta che lo inscrive, Conte, in ben precisa storia. Per intenderci, in quella lunga linea bohémien che da Palmiro Togliatti porta dritti a Elly-toni-pastello (del resto, le scarpe Oxford sarebbero state come minimo incongrue, lì, in Cassazione, tra Bonelli, Fratoianni e opposizioni vieppiù ispirate a Fulco Pratesi).
Così Giuseppi, che a Padre Pio ha già detto addio, Giuseppi che ha detto addio a popolo e populismo – incluse le “bimbe” che lo votavano, sì, ma in punta di pochette – ecco che Giuseppi, dicevamo, passa alla storia per fatti di look... Al punto che ci vorrebbero grandi costumisti, oggi, per un’esegesi dei di lui panni. Ci vorrebbero grandi scrittori un po’ come, nel 1944, a Capri, ci volle Curzio Malaparte per pittare il favoloso Palmiro Togliatti: «Un tipo così e così», annotava lo scrittore toscano, un tipo «dimessamente vestito di un soprabito chiaro, della famiglia degli abiti fatti», con la «cravatta di stile ‘collettivo’, cioè anonimo» e la camicia «sgualcita, come quella di chi, la notte, dorme con la camicia addosso». Ritrattino perfetto, questo. Che, con le dovute finiture, si potrebbe quasi convertire su Conte al Palazzaccio. Ossia sul Giuseppi 3, 4, 5.0. Dimesso e sgualcito. Di stile collettivo.
Su questo nuovo Conte, insomma, inedito e per ciò degno di passare alla storia – e alla passerella – che da Achille Occhetto in marrone brezneviano (marrone menagramo) porta dritti a lui. Lui che è l’erede, si capisce, di Armando Cossutta: lui che vedremo presto in giacca rigida pro-sovietica, in completo da comitato centrale... Secondo un percorso inverso a quello dell’impacciato D’Alema: consacratosi statista con le scarpe fatte a mano; e ancora inverso a quello del Veltroni kennediano, in camicia botton-down, e del Bersani appassionato di gadget Vuitton (in ottemperanza all’egalitarismo tessile che avremmo formalizzato, decenni dopo, in “diritto all’eleganza”: copyright Soumahoro, per non dimenticare). Il fu paglietta, insomma – il premier che piacque alle nonne, alle mamme, a Barbara D’Urso e persino alle bimbe – ha perduto le elezioni e i gemelli a Cortina. Ha perduto le europee, la brillantina e lo charme (che però forse, diciamo forse, aveva preso a nolo, essendo egli Giuseppi – il Molteplice – e non certo Bertinotti: Fausto e uno, sempre uguale al cachemire e al disinvolto Borsalino). Conte ha perduto la pochette per riscoprirsi, infine, compagno che sa stare in compagnia. E cioè a proprio agio tra due fuochi. Sciolto, tra Elly e Bonelli, e forte di furbizia levantina.
Spigliato e scapigliato anch’egli. Tra i malvestiti che intanto sfoggiano Ilaria Salis al parlamento europeo: zeppe e prendisole (per non dire di Carola Rackete – già speronata da Giuseppi 1.0 – che a Bruxelles ci va senza silk epil: e non chiamatelo body shaming). Tutto questo per dire che il Nostro ci sa fare. L’abbiamo chiamato “paglietta” ma in verità è l’erede di Occhetto giacché è un compagno, lui sì, che sa stare in compagnia. Un po’ come si stava tra i Pajetta, gli Ingrao, i Berlinguer: i capi magri tutti di sigaretta e i cappotti oversize. I capi coi cappottoni – tutti di forfora e di cenere – che ci si aspetta, quest’inverno, di vedere addosso a Conte. A meno che non opti per un eskimo innocente (dettato solo dalla sua onestà).