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La sinistra di sempre: nega legittimità democratica ai rivali per restare al potere

Francesco Carella
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Si fa sempre più forte la sensazione che la vicenda politica italiana, a fronte dei decenni che passano, conservi intatte le sue anomalie. Per dire dell’uso al limite del parossismo che la sinistra continua a fare dell’antifascismo. «Si tratta di una forma strumentale di antifascismo» chiarì Renzo De Felice nel marzo 1994 allorquando la sinistra, dopo la vittoria del centrodestra, mobilitò le piazze in nome dell’emergenza democratica. «Il nostro sistema politico - scrisse lo storico - non corre in alcun modo rischi di tipo autoritario. L’obiettivo di coloro che continuano a lanciare allarmi è quello di spaventare il Paese, per prendere voti che non riuscirebbero ad ottenere con gli argomenti politici». Ovviamente gli improperi che ricevette non furono pochi.

La verità è che l’antifascismo strumentale oggi largamente praticato da Elly Schlein risale al Secondo dopoguerra e porta la firma dell’allora segretario del Partito comunista, Palmiro Togliatti. Per il “migliore” - alla ricerca di una legittimazione democratica non ottenibile per il suo partito sul terreno della democrazia liberale per motivi di collocazione internazionale - «in Italia la tentazione di una svolta reazionaria è sempre dietro l’angolo, mentre l’unica forza politica in grado di garantire la continuità democratica è quella comunista». Davvero una strana concezione della democrazia liberale. Del resto, nel maggio 1947 quando Alcide De Gasperi decide di cambiare la maggioranza di governo mandando le sinistre all’opposizione, Togliatti prendendo la parola alla Camera dei Deputati chiarisce ancora meglio il suo pensiero affermando - come si evince dal resoconto stenografico- che «è da considerare democratica solo quella maggioranza che corrisponde al blocco politico di cui fanno parte le sinistre. Soltanto una coalizione di questo tipo può essere considerata legittima a tutti gli effetti».

 

Dopo quasi settant’anni le convinzioni politiche della sinistra nel nostro Paese non sono per niente mutate. Talché coloro che si permettono di contestare tali idee, considerandole come del tutto estranee alla cultura liberaldemocratica, vengono additati quali «sabotatori professionisti della democrazia e delle sue istituzioni». In tal senso, il trattamento riservato a De Gasperi nel maggio ’47, quando in pochi giorni da statista con il quale apprestarsi a condividere un lungo cammino politico diviene «servo degli americani», è da manuale.

E così sarà per altri leader che nel corso della storia della Repubblica contrasteranno a viso aperto le ambiguità della sinistra comunista e postcomunista. Di Bettino Craxi, che pone con forza negli anni ’70 la questione della sudditanza politica e finanziaria del Pci nei confronti di Mosca, il meglio che si possa dire- scrive Antonio Tatò a Enrico Berlinguer - «è che si tratta di un bandito di alto livello».

 

Stessa sorte tocca a Silvio Berlusconi. Il leader di Forza Italia viene presentato come «un fenomeno dai forti tratti criminali». In questi mesi si va in replica, invitando ad esercitare la massima vigilanza democratica a causa del pericolo che il Paese corre con la presenza a Palazzo Chigi di Giorgia Meloni alla quale indipendentemente dal suo pensiero (nella recente lettera indirizzata ai dirigenti di Fdi ribadisce con nettezza che non vi è spazio alcuno per i nostalgici dei totalitarismi del Novecento) si continua a chiedere di esibire la patente di antifascista.

A costoro andrebbe ricordato quanto scrisse già nel 1944 con grande onestà intellettuale un leader quale Alcide De Gasperi. «L’antifascismo - annotava il futuro presidente del Consiglio - è un fenomeno politico contingente che ad un certo punto per il bene e il progresso della nazione sarà superato da nuove solidarietà più inerenti alle correnti essenziali della nostra vita pubblica». Purtroppo, la vicenda storica italiana ha preso un altro corso.

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