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Elly & C. contestano il premierato fingendo di ignorare la storia del Paese

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 Elly Schlein

Francesco Carella
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La ricerca di un sistema per assicurare una maggiore stabilità all’esecutivo, così come nello spirito del disegno di legge costituzionale approvato recentemente al Senato e che prevede all’art.5 l’elezione diretta del presidente del Consiglio, non può essere liquidata come un tentativo di alterare le regole della democrazia liberale. La prima cosa che colpisce nell’osservare l’atteggiamento della sinistra che si oppone alla riforma (con uno strano esercito di costituzionalisti al seguito) è la mancanza assoluta di cultura storica: non si perde occasione per gridare al pericolo fascista, mentre basterebbe consultare un manuale di storia contemporanea per apprendere che sono stati proprio i governi deboli ad avere favorito la caduta delle democrazie e il prevalere dei totalitarismi nel Novecento.

Mentre la seconda osservazione attiene alla mancata analisi dei motivi che sostengono la crescente e preoccupante disaffezione elettorale. Non si va molto lontano dal vero se si ipotizza che l’elettore disertale urne perché ha sempre più consapevolezza di contare poco, se non addirittura niente, nella indicazione di chi deve guidare il Governo. Si tratta di ciò che il filosofo Pierre Rosanvallon chiama «democrazia della sfiducia», laddove «la sovranità del cittadino elettore si manifesta sempre più come potenza di rifiuto sia nella periodica chiamata alle urne che nell’opposizione permanente alle decisioni dei governanti». Si tratta di un fenomeno presente in tutte le democrazie, ma che nel nostro Paese sta assumendo un carattere patologico. Per capirne di più vale la pena di fare un passo indietro nella vicenda politica nazionale. A differenza di quanto accaduto nelle più mature democrazie occidentali, «il nostro Paese non ha mai potuto come scriveva negli anni ’50 il costituzionalista Giuseppe Maranini- sperimentare governi democratici forti, tranne ovviamente che nel Ventennio. Se mai taluno provava ad avanzare delle proposte in tale direzione veniva a stretto giro apostrofato come golpista».


BARBERA VA ASCOLTATO
La qual cosa trova la sua ragione d’essere nelle vicende storiche particolari che hanno segnato l’Italia tra la fine del Secondo conflitto mondiale e i primi anni della Repubblica. È ormai ampiamente documentato che ad escludere che il futuro assetto istituzionale del nostro Paese potesse contare su istituzioni forti furono all’inizio del 1944 i vertici anglo-americani nel timore che il fascismo potesse andare in replica. Un’impostazione che, di lì a poco, incontrerà il favore delle maggiori famiglie politiche (soprattutto quella comunista e quella democristiana) caratterizzate in quegli anni, per le note contrapposizioni internazionali, da una reciproca sfiducia e da una elevata inconciliabilità ideologica. Si optò, pertanto, per un sistema di democrazia parlamentare ad «alta garanzia reciproca» - come venne definito dagli stessi Costituenti – poiché assicurava che mai ci sarebbe stata la possibilità di formare né maggioranze stabili né efficaci strutture di comando. Affermare che l’insieme di tali ragioni di ordine storico appartengono ormai al passato è fin troppo ovvio. Una verità che sembra continui ad essere sconosciuta dalle parti della sinistra.

In tal senso, illuminanti sono le considerazioni fatte dal professor Augusto Barbera (Presidente della Corte costituzionale) a proposito della necessità di prendere atto che alcuni passaggi della nostra Carta siano da rivedere. «La parte sul governo e sui rapporti governo-parlamento- osserva il costituzionalista - è una delle meno accurate e dettagliate della Costituzione. Quasi come non si reputasse in fondo utile né tanto meno necessario vincolare a una precisa disciplina la nascita, la vita e la morte di un esecutivo».
Alla luce di tali osservazioni, una riforma che punti all’elezione diretta del capo dell’esecutivo non può che essere considerata un primo e fattivo passo verso un “governo-governante”. Sarebbe altresì un modo efficace per contrastare la “democrazia della sfiducia”.

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