Giorgia Meloni, da Raimo fino ai placebo: tutti gli insulti contro la premier
L’hanno messa a testa in giù nelle foto. Hanno bruciato un manichino con le sue sembianze in piazza. Le hanno detto di tutto: hanno urlato che «l’Italia sta vivendo l’ombra del fascismo grazie a quella bocchinara» (cit. il rapper pugliese Gennarone durante il concerto del Primo maggio a Parco San Felice, nel Foggiano), l’hanno apostrofata «pezzo di merda, fascista e razzista» (cit. Brian Molko, il frontman dei Placebo, che tra l’altro è una band inglese, in una performance vicino a Torino, l’estate scorsa, della quale gira ancora qualche video sui social a imperitura memoria), l’hanno chiamata «pesciaiola, vacca e scrofa» (cit. il professore di Storia dell’università di Siena, Giovanni Gozzini, che per la verità dopo si è scusato, ma intanto la frittata l’ha condita con tutte le salse al punto che, era il 2021, persino il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e l’allora Presidente del Consiglio Mario Draghi l’hanno chiamata per esprimere la loro personale solidarietà).
Non ci sono solo le parole, eccessive, scurrili, del governatore della Campania Vincenzo De Luca, Pd, che a febbraio le ha mandato a dire, neanche troppo sottilmente, «lavora tu, stronza». E non sarà l’ultima, la polemica sull’uscita dello scrittore Christian Raimo che, ieri pomeriggio, davanti alle telecamere della trasmissione de La7 L’Aria che tira, se n’è uscito con un non proprio elegantissimo: «si tratta di un esempio di passivo-aggressiva perché la relazione col suo elettorato comincia a scricchiolare». Di insulti, berci, affronti, offese, villanie, calunnie, maltrattamenti, ingiurie, pure di carattere sessista perché sì, una donna a Chigi forse è ancora difficile da digerire se poi è di destra rimane inevitabilmente sullo stomaco a tanti, la premier Giorgia Meloni ne ha collezionati, negli ultimi anni, un album delle figurine pieno. Con doppioni riposti nel primo cassetto della scrivania.
Alcuni hanno fatto notizia perché arrivati direttamente da personaggi noti e frequentatori abituali dei soliti talk (come il filologo Luciano Canfora che l’11 aprile del 2022 l’ha definita, nel corso di un dibattito sulla guerra voluta da Putin in Ucraina, una «neonazista nell’animo, una poveretta trattata come una mentecatta pericolosissima». Episodio che è finito con un rinvio a giudizio per diffamazione aggravata, perché quando è troppo è troppo); altri sono passati più sotto silenzio (come gli slogan gridati ai quattro venti nelle miriade di manifestazioni, quelle pro-Pal per cominciare) perché un conto è un interlocutore unico e un altro è una folla che si fa trascinare, ed è anche sufficientemente di parte. Niente di tutto questo, a scanso di equivoci, ha qualcosa a che fare con la sacrosanta libertà di espressione o con l’indiscutibile diritto a criticare la politica e soprattutto chi ci governa.
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Durante la campagna elettorale per le scorse europee non si sono salvati nemmeno i manifesti di FdI (a Caserta le hanno attaccato un tagliandino sotto la faccia con scritto su «bugiarda razzista»). In un corteo della Cgil, era ottobre 2023, a Roma, un gruppetto di partecipanti ha preso il megafono e ha iniziato a scandire «La Meloni è una...» ci siamo capiti (è un altro video disponibile on-line, l’ha postato, sui social, allora, proprio Meloni chiedendo al segretario Maurizio Landini di stigmatizzare l’accaduto). Sull’autonomia differenziata, da quando De Luca ha inaugurato la strada, apriti cielo: col risultato che sull'argomento di politica, quantomeno dall'opposizione, fino a ora, se n'è vista pochina, ma in compenso di volgarità gratuita ne abbiamo registrata fin troppa.