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Enrico Letta, l'eterno ritorno del perdente di successo

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 Enrico Letta

Fausto Carioti
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C’è quella frase che Edmondo Berselli dedicò a Romano Prodi: «Talmente buono che gronda bontà da tutti gli artigli». Oggi calza bene su Enrico Letta, non a caso l’ultimo dei prodiani. È garbato, sorride, ma non c’è da fidarsi. Non era così, lo hanno cambiato.

Il quarantasettenne che dall’aprile del 2013 al febbraio del 2014 guidò il sessantaduesimo governo della repubblica, sorretto da una coalizione di grandi intese che andava dal Pd sino al Popolo della Libertà, con dentro un po’ di tutto, era un’altra persona. «Come premier», racconta un suo ministro, «aveva un forte entusiasmo che sconfinava un po’ nell’ingenuità. Nei rapporti interni è stato equanime e ha saputo valorizzare quelli bravi. Certo, gli sfuggiva il quadro complessivo, non si era accorto che gli stavano facendo le scarpe e si affidò un po’ troppo alla copertura di Giorgio Napolitano. Che lo chiamò lì e lo coprì finché poté, cioè fin quando il partito di maggioranza relativa non ebbe un segretario. Poi, per forza di cose, tutto cambiò...».

Restano agli atti le immagini del passaggio di consegne tra lui e Matteo Renzi, il più gelido della storia repubblicana, poche settimane dopo quell’«Enrico stai sereno». E le gentilezze che gli ha dedicato l’ex sindaco nei suoi libri: «Si è presa una decisione perché quel governo non si muoveva. Non è un caso se nessuno ricorda un solo provvedimento degno di questo nome in un anno di vita di quell’esecutivo – se escludiamo l’aumento dell’Iva». Resa più bruciante dall’antica acredine tra pisani e fiorentini («Ahi Pisa, vituperio de le genti...»), è la prima delle due grandi batoste politiche che lo hanno segnato, dolorosi rituali di passaggio all’età adulta.

I NOMI CHE CONTANO - Sino a quel momento il suo cammino era stato cosparso di fiori. Primi anni tra la città natale e Strasburgo, famiglia ottima, numerosa e ben introdotta, attivista dell’Azione Cattolica, laurea in Scienze politiche e diploma in Diritto delle Comunità europee alla Scuola Superiore Sant’Anna. Enfant prodige della Democrazia cristiana, che lo fa eleggere consigliere comunale a 24 anni.

 

 

Quindi capo di gabinetto del ministero degli Esteri col suo mentore Beniamino Andreatta e nel 1998 titolo di ministro più giovane del dopoguerra, ad appena 32 anni (glielo sfilerà Giorgia Meloni).

Assieme ad Andreatta, che definisce «il mio maestro», e Romano Prodi, «dal quale ho l’onore di continuare ad apprendere moltissimo anche oggi», negli anni gli aprono la strada Carlo Azeglio Ciampi e il socialista francese Jacques Delors, «uno dei giganti della storia europea», per tre volte presidente della Commissione, sostenitore dell’allargamento dei poteri di Bruxelles a scapito degli Stati nazionali e per questo avversario di Margaret Thatcher. «È stata una grande fortuna incontrarli», scrive Letta nel suo libro Anima e cacciavite, e dargli torto è impossibile.

La sua forza è sempre stata questa: le conoscenze giuste negli ambienti che contano. Necessarie per compensare la sua grande debolezza: la totale mancanza di appeal elettorale. Si è presentato una sola volta alle primarie del Pd, nel 2007: le stravinse Walter Veltroni e lui arrivò terzo con l’11%, dietro anche a Rosy Bindi. «Una miseria, più o meno la stessa percentuale di Civati qualche anno più tardi», ha ricordato, implacabile, il solito Renzi.

Il che non avrebbe impedito a Letta di diventare segretario del Pd senza passare per le primarie, nel marzo del 2021, sette anni dopo la defenestrazione, quando gli stessi che avevano aiutato Renzi a cacciarlo da palazzo Chigi lo pregarono di tornare dal dorato esilio di Parigi, dove insegnava a Sciences Po, l’Istituto di studi politici, e gli affidarono un partito allo sfascio, per il quale Nicola Zingaretti aveva detto di provare «vergogna».

Incarico concluso di fatto la notte del 25 settembre del 2022, quando i dati del Viminale confermarono l’irresistibile effetto respingente che Letta ha sugli elettori: Pd al 19%, vittoria storica della destra guidata dalla leader contro cui lui aveva condotto l’intera campagna elettorale. E lui scaricato per la seconda volta da un gruppo dirigente che nemmeno lo ringrazia per essersi immolato. Torna a Parigi più incupito e risentito della volta precedente.

DA DELORS A MACRON - Se si sente più apprezzato nella Ville Lumière che a Roma, è perché lo è. Le porte che qui per lui sono chiuse, lì provvede ad aprirgliele l’élite francese. Guida da otto anni l’Institut Jacques Delors, un “pensatoio” fondato dallo stesso ex presidente della Ue per tramandare ai posteri il suo verbo europeista. Anche per questo i ventisette leader dell’Unione, lo scorso settembre, hanno affidato a Letta il compito di preparare «una relazione indipendente di alto livello sul futuro del mercato unico».

 

 

Incarico che ha tradotto in un volume di 147 pagine intitolato Much more than a market, molto più di un mercato. Che adesso potrebbe essere il lasciapassare per accedere al livello superiore, nell’unico modo che riesce a lui: facendosi cooptare, seguendo percorsi tutti interni ai palazzi.

Sino a qualche giorno fa era in corsa per diventare direttore di Sciences Po, che aveva lasciato nel marzo del 2021, ma si è chiamato fuori. «Nessun nesso» col fatto che proprio in questo periodo si stiano definendo gli incarichi della prossima legislatura europea, assicurano i suoi. Crederci, però, è difficile. Anche perché intanto i suoi amici di Repubblica ci fanno sapere che lui è sempre «innamorato dell’Europa» e che con Meloni ha più affinità di quanto si immagini, e certe cose non finiscono in pagina per caso.

Ci sono da assegnare molti posti e il secondo più ambito, dopo la guida della Commissione, è la presidenza del Consiglio Ue, il consesso dei capi di Stato e di governo, che il manuale Cencelli di Bruxelles assegna ai socialisti europei, all’interno dei quali il Pd ha la delegazione più numerosa. Spetta al partito di Elly Schlein, insomma, fare la mossa, e il curriculum di Letta lo rende candidabile.

Sarebbe anche un modo per togliere all’Italia governata da Meloni la possibilità di puntare ad un altro “top job”, come la presidenza della Commissione o quella del parlamento, alle quali potrebbe ambire Antonio Tajani. Si racconta pure che tra chi gradirebbe vedere Letta su quella poltrona c’è il presidente francese Emmanuel Macron, sempre disponibile quando si può fare uno sgarbo alla premier italiana. La quale gioca una partita delicatissima e prima di dire «sì» o «no» ad ogni ipotesi vuole vedere quali sono le contropartite per l’Italia. I rapporti tra lei e Letta sono cordiali, ma da qui a definirlo uno fidato ce ne passa. E di certo non potrà essere lui, scelto dai socialisti e raccomandato dalla Parigi macroniana, la sponda a Bruxelles del governo di Roma.

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