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Il Jobs Act ha portato risultati, ma la Cgil pensa solo ai suoi interessi

Maurizio Landini

Roberto Formigoni
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Da qualche mese la Cgil sta raccogliendo firme che siano sufficienti per far indire un referendum che abroghi il Jobs Act, l’odiata riforma di Renzi che ha abbattuto l’articolo 18, una vera palla al piede per la crescita delle imprese e del lavoro. E da pochi giorni ha superato il mezzo milione di firme, ancora un piccolo sforzo e il risultato lo avrà raggiunto. Ma è così dannoso per i lavoratori il Jobs Act? Siamo sicuri che per i lavoratori sarebbe vantaggioso un ritorno al passato? Niente affatto, e i numeri lo confermano. I numeri del mercato del lavoro dicono che ci sarebbero più rischi a tornare indietro piuttosto che a guardare avanti. Infatti il rapporto dell’Istat del 2015, l’ultimo anno prima dell’entrata in vigore del Jobs Act, parla di un’Italia che aveva un tasso di occupazione del 55,5%, mentre ad aprile 2024 abbiamo raggiunto un nuovo record a quota 62,3%. Sono numeri su cui la riforma ha evidentemente influito positivamente.

Landini, il gran capo Cgil, replica che il suo referendum punta ad abolire il Jobs Act perchè vuole un lavoro «stabile, dignitoso, tutelato e sicuro» per tutti. Ha ragione? Anche in questo caso no. Ancora i numeri dicono che a fine marzo 2015 gli assunti a tempo indeterminato erano circa 14,5 milioni, mentre oggi sfiorano i 16 milioni, cioè un milione e mezzo in più in meno di un decennio. La riforma ha reso il mercato del lavoro più flessibile e dinamico, trasformando l’Italia in un Paese più moderno, con più opportunità di lavoro. D’altronde non è un caso che Landini non sia stato seguito da altri sindacati, anzi. Il segretario generale della Cisl, Luigi Sbarra, ha definito il Jobs Act «una grande riforma», e ha fatto notare che la disoccupazione si è quasi dimezzata, passando dal 13% del 2015 al 6,9% del 2024. Ma quando domina l’ideologia, come in questo caso, la Cgil non intende ragioni, e proseguirà per la sua strada. Domanda facile facile: vuol fare l’interesse dei lavoratori o della sua parte politica, dei suoi capi e capetti?

 

Se tutte le condizioni saranno rispettate, gli italiani potrebbero essere chiamati all’ennesimo referendum nella primavera del 2025. Personalmente, in questo caso, non avrei dubbi sulla saggezza degli italiani e soprattutto dei lavoratori interessati. Ma ricordiamo che ogni voto è un incognita: meglio stare “in campana”, come dice un motto popolare o, per dirla alla napoletana “statte accuorto”. Vale per tutti gli italiani.

 

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