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L'Autonomia realizza i sogni di Don Sturzo. Ma anche di Gramsci, Rosselli e Calamandrei

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Francesco Carella
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Ci sono voluti più di cento anni affinché il sogno di Don Luigi Sturzo diventasse realtà. Infatti, la cosa che ignorano coloro che in queste ore gridano all’attentato dell’Unità della nazione, dopo l’approvazione definitiva della legge sull’autonomia differenziata, è che nell’ottobre 1921 aprendo il congresso del partito popolare a Venezia Sturzo disse testualmente che «la regione da far sorgere deve avere la caratteristica di ente elettivo e autonomo. È indispensabile che abbia finanza propria con facoltà di imporre tributi, statuisca leggi e approvi regolamenti tali da avere vigore nell'ambito del proprio territorio». Chi ha un minimo di conoscenza della storia d’Italia sa che dall’Unità in poi il tema del federalismo e della possibilità di valorizzare le autonomie è sempre stato presente nel dibattito pubblico.

Già nei primi mesi del 1861 la Destra storica perla penna del ministro Marco Minghetti elaborò un dettagliatissimo progetto di devoluzione dei poteri come asse portante del giovane Stato italiano. Purtroppo, l’esplosione del brigantaggio convinse l’allora classe politica a fare macchina indietro nell’illusione di potere risolvere con un ordinamento centralizzato le grandi differenze economiche, sociali e culturali esistenti fra gli Stati preunitari.

 

Il corso successivo della vicenda nazionale ha dimostrato che non si trattò di una scelta vincente, perché non favorì né la riduzione del divario fra Nord e Sud né innescò il difficile processo di nazionalizzazione. Ma l’idea di una diversa articolazione dei poteri fra centro e periferia non è mai sparita del tutto dal discorso pubblico, ripresentandosi con forza ogniqualvolta il Paese ha dovuto fare i conti con una crisi di sistema. Tutto ciò è avvenuto nell’ultimo e convulso decennio del XIX secolo; subito dopo la Grande guerra, quando si presentò in modo drammatico il nodo di una nuova organizzazione da dare allo Stato come risposta all’avvento della società di massa; il tema si ripropose nel 1944-45 nel momento in cui si trattava di scegliere l’architettura istituzionale per la ritrovata democrazia; l’argomento divenne di nuovo di attualità all’indomani della distruzione della prima Repubblica nel “biennio rosso” 1992-93. In tutte questi passaggi, coloro che proponevano un’uscita in senso autonomista si prefiggevano un duplice obiettivo: incentivare le dinamiche economiche di quella parte di Paese già inserito nei circuiti internazionali moderni e, nel contempo, creare le condizioni - come sosteneva il meridionalista Guido Dorso - per «fare maturare anche al Sud una qualificata classe dirigente».

GIUSTIZIA E LIBERTÀ, LUSSU...
Alla sinistra che in queste ore grida allo scandalo andrebbe ricordato che finanche Antonio Gramsci in una lettera scritta nel 1923, per la fondazione dell’Unità, lanciò la parola d’ordine «Repubblica federale degli operaie dei contadini». Argomenti sviluppati, pochi anni dopo, dal movimento antifascista “Giustizia e Liberta”. Carlo Rosselli nel 1932 indica «nell’autonomismo l’asse centrale intorno al quale si sarebbe dovuto costruire il nuovo Stato democratico, dopo la caduta del fascismo», mentre Emilio Lussu propone «la validità della regione come l’organismo più adatto per garantire l’unità politica in forza della storia, della geografia e della lingua». Tesi sostenute con forza nel Dopoguerra sia dal giurista Piero Calamandrei che dal futuro capo dello Stato Luigi Einaudi. Dopo oltre centosessant’anni l’autonomia differenziata è divenuta realtà.

 

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