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Autonomia, la riforma è un'opportunità: può far nascere una nuova classe dirigente al Sud

Corrado Ocone
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Il caso ha voluto che, proprio mentre la Camera dei Deputati approvava la legge sull’autonomia differenziata, lo Svimez diffondesse dei dati sull’economia meridionale a dir poco sorprendenti. Considerato il periodo che va dal 2020 al ‘23, il Pil del Mezzogiorno d’Italia è infatti cresciuto più di ogni altro Stato o regione d’Europa: del 3,7%, più dell’Italia intera che si è fermata al 3,5% e che comunque è risultata la nazione più virtuosa.

È un dato su base quadriennale, quindi non dovuto alla casualità di un exploit momentaneo e transitorio. Né è limitato alla sola ricchezza prodotta, considerato che anche l’occupazione è cresciuta del 2,6%, molto al di sopra della media nazionale (pure alta) e di quella europea. Quanto all’export, esso è addirittura volato. Lasciamo agli esperti il compito di interpretare e spiegare nei dettagli i dati di questo “miracolo”. Quel che qui invece preme sottolineare è che la società meridionale, data più volte per morta o disperata, dimostra segni di vitalità inaspettati.

 

 

 

A crescere sono le iniziative imprenditoriali, le attività di volontariato, i contatti di lavoro e di studio soprattutto coi Paesi dell’Africa settentrionale e dell’Europa orientale e balcanica. Ciò che invece sembra mancare del tutto è la volontà di partecipazione politica. Non è una novità. Già i meridionalisti classici di inizio ‘900, a cominciare da Salvemini, riconducevano il problema meridionale alla mancanza di classi dirigenti o politiche. Tanto da auspicare, con Dorso, una «rivoluzione meridionale» compiuta da soli «cento uomini con le spalle d’acciaio». Il predominio di cacicchi e potentati vari, di un ceto politico spesso colluso e corrotto, che ultimamente ha trovato riparo soprattutto nei partiti e nelle istituzioni rette dalla sinistra, si spiega forse anche con questa generale disaffezione o disillusione dei meridionali per la politica.

Al politico si chiede solo di non intralciare troppo le attività private. In sostanza, l’indagine Svimez delinea un’immagine del Mezzogiorno non certo adagiato e vittimista: non esclusivamente legato, come si era voluto far credere, a logiche assistenzialistiche o al «reddito di cittadinanza». Ed è a questo punto del discorso che si inserisce l’autonomia differenziata, che, secondo quanto raccontatoci dai “soliti noti”, spaccherebbe il Paese e abbandonerebbe il Sud a sé stesso e alla sua strutturale povertà. Il che, come è facilmente dimostrabile, non è affatto vero. Quel che invece è sicuro è che il principio guida del decreto legge passato a Montecitorio è quello della responsabilizzazione.

 

 

 

Le regioni che sceglieranno l’autonomia dovranno infatti mostrarsi capaci di usare in modo efficiente le proprie risorse, senza sprechi e con investimenti di qualità. Il che dovrà impegnare prima di tutto la classe politica, chiamata ad una sfida che se disattesa potrebbe costarle il potere. Detto altrimenti, chi governa le amministrazioni locali non potrà concedersi il lusso di sprechi e diseconomie, non potrà buttare soldi pubblici per soddisfare fameliche clientele e così preservarsi al potere.

In sostanza, l’assunzione del principio di responsabilità da parte dei politici meridionali potrebbe essere l’occasione per far nascere anche al Sud una classe dirigente più consistente, presentabile e di qualità. Non fosse che per questo, l’autonomia per il Mezzogiorno più che un rischio dovrebbe essere considerata un’opportunità.

 

 

 

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