Autonomia, a sinistra torna l'ammucchiata: il referendum come trampolino per le elezioni
Lo chiameranno Cln, come il Comitato di liberazione che raggruppò le sigle antifasciste, o qualcosa di simile, tipo Fronte costituzionale. Un’etichetta ispirata al Grande Allarme Democratico e che giustifichi la presenza, sotto lo stesso tetto, di personaggi e idee diversissimi tra loro. Ma qualunque sia il nome, l’obiettivo ultimo, che sarà dichiarato solo al momento opportuno, è ripetere l’esperienza dell’Unione di Romano Prodi: un coacervo con dentro di tutto, dagli atlantisti (pochi) ai putiniani, da chi condivide i referendum della Cgil contro il Jobs Act (tanti, quasi tutti) a chi il Jobs Act lo scrisse e lo votò. Composto, come quello di allora, per andare al governo. Usando però, stavolta, un referendum come trampolino.
Hanno davanti un percorso in tre tappe. La prima è creare le condizioni per votare nel 2025 il referendum per abrogare la legge che introduce l’Autonomia differenziata, appena votata dal parlamento. La seconda- ovviamente è vincere quel referendum. In modo da poter chiedere elezioni anticipate. Terza e ultima, presentarsi tutti insieme, sull’onda di quel successo, contro la coalizione di governo, indebolita dalla sconfitta referendaria.
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L’operazione è già partita e il primo passo è il più facile. «Se si prendono 500.000 firme entro il 30 settembre, nel 2025 si va a votare», dice Matteo Renzi, già tuffatosi nella nuova missione. In realtà, nemmeno ci sarebbe bisogno di arrivare a tanto. La Costituzione stabilisce che lo stesso risultato può essere ottenuto con una richiesta presentata da cinque Consigli regionali. E i partiti dell’opposizione al governo oggi comandano proprio in cinque Regioni: Emilia-Romagna, Toscana, Sardegna, Campania e Puglia.
«La Toscana sarà fra le cinque Regioni che promuoverà la richiesta di referendum abrogativo della legge sull’Autonomia», assicura il governatore Eugenio Giani. Le regioni del Sud non si tireranno certo indietro e non è credibile che a rompere il gioco sia l’Emilia-Romagna dell’uscente Stefano Bonaccini, il quale accusa la riforma (che un tempo gli piaceva tanto) di provocare «nuove fratture territoriali». Se raccoglieranno quel mezzo milione di firme, insomma, sarà per dare una prova di forza e “saldarsi” con la Cgil, che nel frattempo ha raccolto le firme per andare al voto e abrogare il Jobs Act. L’esito, però, non cambierà.
La palla passerà quindi alla Consulta: secondo la Costituzione «non è ammesso il referendum per le leggitributarie e di bilancio», e il provvedimento che introduce l’Autonomia differenziata è un collegato alla legge di Bilancio. Spetterà ai giudici costituzionali stabilire se il quesito è ammissibile; ma, visto anche l’orientamento prevalente tra loro, lo scoglio sembra aggirabile. È probabile, quindi, che nel 2025 si votino due referendum. Qui verrà la parte più difficile per l’opposizione: convincere la metà più uno degli elettori ad andare ai seggi, in modo che il quorum sia raggiunto. Obiettivo che dal 1997, in otto diversi appuntamenti, è stato raggiunto solo una volta, nel giugno del 2011.
Una sfida in salita, dunque. Contro un governo al quale converrà puntare sul mancato raggiungimento del quorum. Ma la partita è da giocare. Faranno di tutto per mobilitare il Mezzogiorno, dove l’affluenza è sempre più bassa che nel resto d’Italia, terrorizzando i meridionali (già hanno iniziato) con la «secessione dei ricchi» e scenari di devastazione sociale: servizi cancellati, licenziamenti nel pubblico impiego, ospedali senza flebo e così via.
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Man mano che ci si sposta al Nord il filo conduttore della campagna referendaria cambierà: l’obiettivo sarà spingere ai seggigli elettori di sinistra, promettendo loro che abrogando l’Autonomia costringeranno il governo di destra alle dimissioni, fermando così anche il premierato e la riforma della giustizia. Un’altra chiamata alle armi sulle note di Bella ciao, insomma. E tornerà utile la saldatura con la Cgil: chi va a votare contro il Jobs Act prenda anche la scheda per abrogare l’Autonomia differenziata, e viceversa. Se davvero riusciranno a scavallare questo enorme ostacolo, la richiesta di seppellire un esecutivo sconfitto dagli elettori su un punto centrale del programma sarà scontata. Il solito Renzi l’ha già depositata: «Se scatta il quorum, il governo va a casa». Aggiungendo, con furbizia: «Ma anche se non scatta il quorum, l’esecutivo offre il primo “breakpoint” alle opposizioni».
Su questo, lui e gli altri leader della minoranza parlano la stessa lingua. E se qualcuno crede che i pezzi di una simile accozzaglia, il giorno dopo aver vinto una sfida del genere, non trovino le ragioni per creare un’alleanza elettorale e fare squadra insieme nei collegi, vuol dire che non li conosce. Questo è ciò che si muove. Programmarlo è facile, arrivare in fondo sarà complicatissimo. Ma i pezzi si sono messi in movimento, la prossima grande sfida che attende il governo è questa, a palazzo Chigi servirà una strategia all’altezza della posta in gioco.
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