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Giorgia Meloni, perché un premier perfino di destra ha il diritto di difendere la sua vita privata dalle aggressioni

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Corrado Ocone
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È bastato che Giorgia Meloni confessasse in una trasmissione televisiva di sentire il peso di una certa “morbosità” sulla sua vita privata perché i commentatori orientati a sinistra le dessero addosso accusandola di non capire che l’ostensione del privato è oggi elemento sostanziale del fare politica.

È stato scomodato persino Barack Obama, che nonostante il fallimento della sua presidenza rimane un mito nel mondo progressista: egli ebbe infatti a dire che, se ci si candida ad un ruolo politico importante, è sottinteso che si rinunci alla propria privacy. Che una tale deriva sia in atto, è un dato di fatto. Ciò non significa però che ci si debba adagiare di necessità all’andazzo, senza coglierne gli aspetti negativi e cercando, nella misura del possibile, di correggerli.

D’altronde, questa invasione della vita privata, non solo dei personaggi più esposti ma di tutti noi, è un fenomeno relativamente recente, connesso senza dubbio alla pervasività dei nuovi mezzi di informazione e all’avanzare della “società dello spettacolo”. Non sempre però la trasparenza assoluta è un valore, anche perché, come sapevano gli antichi, con troppa luce si può finire abbagliati. Ovvero, fuor di metafora, si può dimenticare, nella fattispecie, l’essenza della politica, che consiste nelle visioni del mondo di cui i vari attori sono interpreti e nei programmi politici che ne discendono e che una volta al governo ci si impegna ad attuare.

 

SEGRETI E SEGRETARI
Tutta l’età moderna, quella che in un senso molto lato può essere definita “liberale”, si è caratterizzata in Occidente per una rigorosa distinzione fra la sfera privata, eretta a difesa della libertà dei singoli, e la sfera pubblica, ove appunto contano i comportamenti e le azioni, anche indipendentemente dalle intenzioni ultime che li animano. Lo stato moderno, sorto proprio per difendere l’individuo, aveva escogitato persino il “segreto di stato”, ovvero un ambito per principio non trasparente ma ritenuto necessario per la “salvezza” della comunità (l’antica salus rei publicae). Il termine segretario, derivante dal latino secretum, indicava proprio il tenutario di questi necessari ambiti di segretezza.

Certo, il rischio presente in una siffatta impostazione era quello dello statalismo, cioè di uno stato che non fosse più “di diritto”, dimentico del suo fine ultimo di tutelare l’individuo. Gli stati totalitari, che hanno esasperato questa tendenza, hanno infatti concepito il secretum come un’esclusività dei potenti, ritenendosi invece in diritto di invadere la sfera privata dei sudditi, “la vita degli altri” di cui parlava un illuminante film sul comunismo.

Il sistema delle distinzioni era comunque un tempo così forte che Benedetto Croce arrivò ad esaltare Charles James Fox nonostante la sua vita dissoluta, commentando sarcastico che «l’Inghilterra ben gli fece largo nella politica, quantunque i padri di famiglia con pari prudenza gli avrebbero dovuto negere le loro figliuole in ispose».

CASA E POLIS
Un paradosso, ovviamente, ma significativo di ciò di cui stiamo parlando. In definitiva, anche il mondo classico considerava la politica come un’attività indipendente dalla vita dei singoli, la quale però per loro si svolgeva nell’ambito della casa (oikòs) e della famiglia, dominato dalla necessità. La libertà poteva invece realizzarsi solo nella polis, attraverso il confronto e il discorso, cioè l’uso pubblico del logos. Ovviamente, in quel contesto, la più parte degli uomini era relegata ad un ruolo servile, nell’ambito domestico dominato dalla necessità. I cittadini liberi, che potevano dedicarsi alla cosa pubblica, erano un esigua minoranza.

Una situazione che, per fortuna, le nostre democrazie hanno superato. Fatto sta però che anche per gli antichi la politica andava giudicata secondo i propri principi, in una necessaria autonomia dalla sfera privata. Una vecchia sapienza che si tende purtroppo a dimenticare, e che fa tutt’uno con la generale crisi della politica propria del nostro tempo.

Probabilmente, la distinzione fra sfera pubblica e sfera privata non è più recuperabile nelle vecchie forme, né in quella antica né in quella dei moderni. Che però essa possa essere cestinata è un destino a cui non dobbiamo rassegnarci. Il privato non è affatto politico, come recitava ottusamente uno slogan in voga nel Sessantotto. Ed è questo il senso ultimo che dobbiamo trarre dalle parole e dallo sfogo del presidente del consiglio.

 

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